Il decisionismo renziano alla base dell’ingresso del Pd nel Pse

Pubblicato il 2 Marzo 2014 alle 12:07 Autore: Livio Ricciardelli

L’area più vicina alle istanze liberaldemocratiche del Pd è sempre stata sempre tra le più strenue oppositrici dell’ingresso del partito nel Pse.

Per analizzare un fenomeno di questo tipo possiamo analizzare vari aspetti, di tipo prettamente politico o politologico. Possiamo dire per sommi capi che nella cultura liberale italiana (da sempre minoritaria nel paese e nel Pd, partito animato perlopiù dai due grandi filoni del socialismo post-comunista e del cristianesimo sociale) ha sempre avuto una certa “tendenza prepolitica” ad evitare fusioni di qualsiasi tipo. Preferendo percorrere la strada di un gradualismo di tipo quasi fabiano capace di spingere le idee politiche altrui (per esempio: la socialdemocrazia) verso una forma di evoluzione improntata al centro. Nella cultura popolare invece molto spesso c’è stata una tendenza all’amalgama delle culture dall’approccio “dogmatico”, in quanto provenienti del cattolicesimo e dal materialismo di tipo marxista. Da qui per esempio il tema del “compromesso storico” (tentativo di quasi “gollista” di unire le due culture maggioritarie del paese partendo da una situazione di impossibilità nel dar vita ad un’alternanza di governo) e dello scetticismo delle forze laiche nei confronti delle assi tra Dc-Pci. Non è del resto fenomeno nuovo in politica il fatto che una forza intermedia molto spesso nutra nei confronti dei proprio partito “vicino” maggior astio che per i rispettivi nemici ideologici. Molto spesso alcune branche del popolarismo democristiano, giusto per fare un esempio, nutrivano nei confronti del Pci un odio ancor maggior di quello missino. E come dimenticare il viscerale odio per la sinistra della Sudtiroler Volkspartai, definito da sempre come il partito “anticomunista d’Italia”?

Ora, come sappiamo Matteo Renzi proviene dal Partito Popolare Italiano. Quindi da una cultura politica da sempre lontana dalla tradizione socialdemocratica seppur non ostile pregiudizialmente come altre. A seguito del congresso dei popolari europei ad Atene nel 2004 il cattolici di sinistra dell’Ulivo prima e del Pd poi decisero di lasciare definitivamente quella che appariva sempre più come la casa dei conservatori europei. Nonostante tutto molto spesso si sono avvicinate alle istanze renziane ex esponenti dell’area più liberal della Margherita, in certi casi cercando addirittura di inserire il proprio copyright sul pensiero politico del neosegretario.

Alla luce di questa situazione (un leader del Pd di formazione popolare ma con curiosi epigoni anche nel mondo liberale) come si spiega la forte accelerazione che ha portato il Partito Democratico ad aderire al Partito del Socialismo Europeo?

Presumibilmente trattasi di una vittoria del realismo in politica: il Pd è un fattore d’anomalia a sinistra perché non ha quei connotati specificatamente socialisti e socialdemocratici degli altri poli di centrosinistra europei. Ha questa natura peculiare proprio perché si pone un superamento del socialismo per ideare una nuova idea di sinistra capace di fermare il predominio delle destre europee (che tra le altre cose hanno prodotto l’Europa intergovernativa come la conosciamo noi e il conseguente euroscetticismo). Io riesco ad incidere in questo cambiamento solo entrando nella casa a me più vicina. E posso far ciò anche perché assumo uno dei ruoli centrali all’interno del Pse. Senza aspettare fantomatiche evoluzioni di tutti i partiti di sinistra europei verso un polo liberaldemocratico che vorrebbe solo dire che tutta una storia è destinata a finire senza ereditare alcun tipo di eredità dalla vicenda della sinistra europea.

Ma al tempo stesso è una vittoria del decisionismo renziano, quello che appare come un tratto distinguente rispetto alla precedente gestione del partito a trazione bersaniana: perché Renzi ha portato a casa in due mesi ciò che Bersani non è riuscito a portare in 4 anni pur essendo questa battaglia classica della tradizione politica a cui l’ex segretario si rifaceva. E in ciò c’entra poco la politica, e molto il decisionismo applicato alla politica stessa.

 

Livio Ricciardelli




L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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