INTERVISTA Clementi: “Renzi al governo? Tutto il paese chiedeva uno scatto politico”

Pubblicato il 18 Marzo 2014 alle 12:15 Autore: Gabriele Maestri
francesco clementi

La legge elettorale sta per approdare al Senato: è l’occasione per fare il punto con chi conosce da vicino i problemi del voto e della sua trasformazione in seggi. Francesco Clementi, professore associato di diritto pubblico comparato all’università di Perugia e già componente della Commissione per le riforme istituzionali voluta da Enrico Letta, ragiona intorno al testo che passerà all’esame di palazzo Madama, mettendo in luce alcuni punti cui prestare attenzione.

Peraltro, da tempo, le posizioni scientifiche di Clementi sono tenute in considerazione anche da Matteo Renzi e, anche in ragione di questa vicinanza,  l’occasione per discutere dell’arrivo al governo del segretario del Pd, delle polemiche legate alla parità di genere nella legge elettorale e del ruolo di Renzi in questa legislatura è troppo ghiotta per farsela sfuggire.

Professor Clementi, la legge elettorale ha superato il primo step alla Camera: secondo lei è un buon compromesso o c’è ancora qualche germe di pastrocchio da sistemare?

Non userei propriamente la parola “pastrocchio”, anche se la legge elettorale ha bisogno di un’ulteriore messa a punto. Certamente il punto chiave e decisivo mi pare sia stato raggiunto: c’è un accordo generale tra le maggiori forze politiche per portare a risoluzione una delle grandi richieste che da tempo fa il Presidente della Repubblica, cioè una nuova legge elettorale che la sera stessa delle elezioni dia agli italiani un governo con una chiara maggioranza in Parlamento e un leader in qualche modo investito della premiership, naturalmente in via di fatto e non di diritto.

Non è un mistero però che lei, come altri esperti, avesse una preferenza per un sistema elettorale basato sui collegi uninominali di tipo maggioritario…

Confermo. E’ proprio vero: io – come altri colleghi – da tempo ritengo che i collegi uninominali maggioritari siano la soluzione migliore anche per il nostro Paese, la più adatta per un regime parlamentare che voglia essere di stampo europeo.  Mi rendo conto, tuttavia, che le resistenze sono tante e quindi, con realismo consapevole, mi rendo conto che vanno bene pure le liste corte, purché siano costruite così come lo sono in Europa, laddove vengono usate: ossia corte nel numero degli eleggibili, in modo che siano identificabili da parte degli elettori. Di sicuro non esiste un paese solido, da prendere da esempio, fondato sulle preferenze. Per cui, il cuore batte per i  collegi uninominali, ma le liste bloccate corte – se tali sono – rappresentano certamente una scelta, che capisco con la ragione, nello stile delle moderne liberaldemocrazie di stampo europeo.

camera discussione quote rosa

Resta però probabilmente una certa alea dovuta alla natura nazionale della ripartizione dei seggi: il controllo dell’elettore su chi nelle “listine” effettivamente sarà eletto non mi pare sia completo, senza contare che le multicandidature, prima eliminate, sono rientrate dalla finestra.

Qui effettivamente c’è un dato molto importante da sottolineare: la quadratura del cerchio tra le grandi forze politiche ha procurato con evidenza la difficoltà di definire un chiaro algoritmo che consentisse al tempo stesso all’elettore non solo la possibilità di individuare l’eletto – come la Corte costituzionale nella sentenza n. 1/2014 sottolinea come dato imprescindibile – ma anche di sapere con certezza che quello sarà il potenziale eletto del suo territorio. La ripartizione dei seggi invece per certi aspetti è potenzialmente casuale (ndr stata definita “flipper” da taluni); e anche per questo si è ripresentata la necessità di reintrodurre la possibilità delle multicandidature (fino a 8). Questo impone in qualche modo una scelta ancora più oculata da parte dei partiti delle candidature, perché evidentemente rischia di produrre dei difetti di sistema. Auspico che questa scelta però possa costituire un’anteprima di un possibile ritorno, in futuro, ai collegi uninominali maggioritari, rappresentando infatti comunque un’importante risalita rispetto al Porcellum.

Si potevano prevedere primarie istituzionalizzate?

Assolutamente sì: le primarie per legge erano una soluzione possibile, che è stata pure adombrata in Parlamento. E che condivido in pieno. E’ evidente che in alcuni partiti le primarie sono ormai elementi costitutivi della loro identità, penso al centrosinistra e in particolare al Partito democratico; dal lato del centrodestra capisco che sono un’esigenza ancora inevasa. Non escludo tuttavia che l’esperienza del Nuovo centrodestra possa aprire su questo filone un fatto importante: potrebbe rendere più solida la scelta di uno strumento come le primarie che, anche se non ancora definito in termini giuridici, potrebbero prossimamente essere definite con legge, anche sulla base di ulteriori esperienze oltre a quella del Partito democratico.

Sull’eleggibilità delle donne però sembra essersi aperto un problema non piccolo anche e soprattutto nel Pd. O è come dice Renzi, che ai giornali avrebbe detto che volevano farlo fuori?

Mah…non saprei dire. Io non sono personalmente favorevole alle quote di genere, pur essendo di fronte a un tema che esiste. Infatti, il rischio che le donne siano meno presenti in Parlamento c’è, nonostante questo sia il Parlamento più “rosa” della storia repubblicana e nonostante l’Italia in Europa abbia in questo ambito uno dei ranking più alti. Nei paesi civili, però, dalle democrazie scandinave a scendere (che hanno un rapporto di genere importante), la maggior parte dei Paesi europei, come è noto, non usano le quote di genere. Piuttosto, attribuiscono la scelta dei candidati –come è giusto che sia- in capo ai partiti. Ecco, mi piacerebbe che le donne e gli uomini votassero quei partiti che fanno una scelta di rispetto della parità di genere: oggi l’ hanno potuto sperimentare con la forza delle quote, ma questa dovrebbe diventare una scelta di responsabilità dei partiti, non uno strumento eterodiretto dal diritto, un vincolo normativo, perché a questo punto rischieremmo di rendere i partiti deresponsabilizzati. E’ tempo, invece, che la politica reinvesta sui partiti politici. E che abbia il coraggio di spiegare perché fa certe scelte. In questo modo, peraltro, si educano i partiti…ma anche gli elettori, che sono a maggior ragione liberi di non votare quei partiti che non considerano il tema della democrazia paritaria un tema rilevante. Che ciascuno, insomma, si assuma le sue responsabilità, senza nascondersi dietro l’alibi del diritto. Oggi, che abbiamo il parlamento più “rosa” della storia repubblicana e pure un governo 50% e 50%, possiamo dunque liberamente dire che…è compito dei partiti sempre più dimostrarsi responsabili nella scelta dei candidati.

Maino Marchi parità di genere

All’interno del Pd però qualcuno ha preso malissimo la bocciatura degli emendamenti sulle donne a capo delle liste, a partire da chi aveva sostenuto quelle modifiche: per Maino Marchi il Pd ha fatto una figuraccia e teme che ci sia un accordo trasversale e sottaciuto per evitare ogni altra modifica…

Lo capisco. Tuttavia –lo ribadisco- o la politica si impegna a valorizzare anche la rappresentanza di genere, o qualsiasi vincolo giuridico è solo un modo per surrogare l’incapacità e l’irresponsabilità della politica. Delle due l’una: o i politici ora presenti in Parlamento credono in se stessi (e allora non devono cercare la soluzione “comoda” del diritto che impone alla politica una scelta) oppure non ci credono, e allora ogni obbligo giuridico sarà una sconfitta della politica che, anche se porterà più donne in parlamento, indebolirà comunque la politica piuttosto che rafforzarla.

Da tecnico vedo un altro problema in questa legge elettorale: gli spazi che possono aprirsi a favore di “liste rastrellavoti”, che non arrivano al 4,5% ma – magari con simboli accattivanti – riescono a raccogliere il consenso che serve a superare il 37% dei voti e ottenere il premio: come si fa a evitarle?

Computare le liste sottosoglia è in effetti una questione che fa molto pensare, non da ultimo perché spinge a costruire appunto liste “rastellavoti” come le chiama lei, magari basate su uno zerovirgola. Condividendo appunto quel disagio, si potrebbero introdurre vari meccanismi, compreso pure però anche un semplice “accordo tra gentiluomini” tra i partiti maggiori per evitare una soluzione che appare nefasta.

La partita delle riforme istituzionali è connessa a quella della legge elettorale e, per qualcuno, ha avuto l’effetto immediato di allungare la vita alla legislatura. Quante possibilità ci sono che si porti a casa una riforma, anche senza immaginare quale (in particolare, quale Senato uscirebbe)?

Io penso questo: la legislatura si era aperta con il discorso del presidente Napolitano alle Camere per la sua rielezione: le riforme l’unico argomento vero che l’aveva convinto ad accettare una rielezione che lui stesso più volte aveva rifiutato.  Ora che la situazione politica sembra trovare un nuovo slancio con un nuovo Presidente del Consiglio e una nuova maggioranza rinvigorita, in qualche modo, anche da un appoggio forte sulle riforme attraverso l’accordo con Forza Italia, penso che ci siano ampi margini per pensare positivo su una soluzione che possa dare a questo paese un nuovo Senato e una nuova legge elettorale, oltre alla risistemazione di alcuni passaggi chiave: penso al Cnel, così come anche ad alcuni addentellati della forma di governo. Questa, insomma, potrebbe diventare davvero una legislatura costituente, pur essendo iniziata con un Presidente della Repubblica che ricordava al Parlamento quanti anni sono passati da quando le riforme sono diventate un tema centrale di ogni governo.

matteo renzi

L’arrivo di Renzi a palazzo Chigi è la maggiore garanzia per l’Italicum?

Non so se sia la maggiore garanzia per l’Italicum, ma certamente è una garanzia che in Parlamento la sfida dell’Italicum non sarà indebolita. La garanzia dell’Italicum viene dagli accordi che i tre segretari di Nuovo centrodestra, Forza Italia e Pd hanno fatto: non so se Renzi al governo sia la garanzia, ma dovrebbe garantire la tenuta sulla legge elettorale. Il che, in un periodo in cui fare le cose diventa sempre più difficile, è un additivo in più per fare le cose per bene.

Resta il fatto che fino a poco prima Renzi diceva “Enrico stai sereno” e poi le cose sono andate come sono andate, con un passaggio quasi repentino. L’ex sindaco di Firenze non ha forse messo un argomento pesante in mano ai suoi detrattori, cioè un’accusa di abissale incoerenza?

Guardi, il problema secondo me è questo: noi abbiamo di fronte una situazione che certamente è stata molto rapida, il cui passaggio evidentemente ha lasciato un po’ di ruggine. Certo è che la situazione economica (e non solo) abbisognava di uno scatto politico: non lo chiedeva solo il Pd, ma anche lo chiedevano le imprese, i sindacati… lo chiedeva in qualche modo anche il paese che era sostanzialmente avvitato su se stesso. Questo non vuol dire ovviamente che il governo di Enrico Letta abbia fatto un cattivo lavoro, intenda bene: significa semplicemente che a un certo punto il ritorno della politica si è imposto. Pensare che si potesse sopravvivere senza governare o governare solo per sopravvivere rendeva debole qualunque scelta di governo. Da questo punto di vista, però, nessuno ha la patente di infallibilità e la prova provata della bontà di quella scelta l’avremo in primis alle elezioni europee quando, da un lato, gli italiani avranno in tasca -spero-  quello che il Presidente del Consiglio ha loro promesso; dall’altro, la campagna elettorale avrà dimostrato che cambiare l’Europa, a maggior ragione, è possibile se si ha chiaramente la volontà pure di cambiare l’Italia. E di farlo, non a parole. Ma rendendo misurabile ciò ai cittadini.

Eppure Renzi era stato chiaro, nel dire che non sarebbe andato a palazzo Chigi se non dopo un voto, poi non è andata così. Secondo qualcuno, Renzi aveva capito che proprio l’Italicum non l’avrebbe porta al governo, vista la capacità di Berlusconi di aggregare un polo più coeso. 

Mah, non saprei, non farei troppo il retroscenista. Starei più sulle cose: in quei giorni – basta riprendere i giornali – non c’era un soggetto socialmente rilevante che non segnalasse le difficoltà di questo paese nella risoluzione dei problemi e non sollevasse la necessità di un cambio di passo. Da questo punto di vista, mi pare che il soggetto più idoneo dovesse essere comunque il partito di maggioranza relativa e, dunque, il suo segretario, come figura automatica per la soluzione del problema, essendo da statuto il naturale candidato del Pd alla premiership. Farei dunque ricostruzioni meno dietrologiche e più oggettive, anche semplicemente riprendendo il dibattito di quei giorni.

bersani

Un segretario di provenienza Pci-Pds-Ds come Pierluigi Bersani non aveva portato il Pd nel Partito socialista europeo, ci è riuscito Renzi che viene da un’area diversa: che significa?

In realtà è il percorso è molto lungo. E parte da lontano. Mi sembra però interessante il fatto che Renzi provenga da una storia diversa, dalla Margherita: può cambiare quella che è forse una vecchia situazione all’interno dei socialisti e democratici e far evolvere il partito verso un fronte propriamente democratico, dando quindi una prospettiva meno ideologicamente marcata nella storia del socialismo europeo, trasformando il gruppo nella famiglia nei “Democratici europei”. Insomma, aprire a un partito democratico europeo credo debba essere la sfida per le prossime europee. E chi può farlo meglio di un segretario che non viene da quella storia? Mi sembra perfetto.

Esportare il Pd in Europa dunque?

Esattamente, così come si lavorò ai tempi di Prodi, pure negli altri Paesi, intorno all’idea dell’Ulivo…che tanta contaminazione ebbe.

In chiusura, diciamo la verità: esistono i “renziani” come categoria antropologica o dello spirito?

Direi che esiste un “fenomeno” politico che è Matteo Renzi, e che intorno a lui si è agglutinata innanzitutto (ma non solo) quasi tutta una generazione che ha creduto, crede e sta credendo alla possibilità di cambiare e rinnovare il Paese. Ma i “renziani” come categoria sociologica o sociopolitica non credo possano esistere nella politica 2.0 di oggi. Se vuole, semplicismo per semplicismo, al mondo ci sono quelli che vogliono cambiare lo stato delle cose, desiderosi di rompere gli equilibri che sono fuori dal tempo di oggi, e sono i riformisti; e ci sono quelli che di quegli equilibri vivono e da quelli dipendono, che sono i conservatori. La scelta alla fine è sempre tra vincoli e opportunità. E questo Paese ha troppi vincoli e interessi consolidati non più tollerabili per la generazione che avanza. E’ naturale provarci, così come è naturale trovare resistenze. Tra qualche anno misureremo se sarà stato un fuoco fatuo tutto ciò o invece una fase vera di cambiamento.

Sarebbe prendersi troppo sul serio e non è il caso, quindi…

La politica che si prende sul serio è una politica che parla a se stessa, distratta dai veri problemi. E non mi piace, perché non è neanche politica.




L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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