Un volto diverso per l’Afghanistan: il Paese della guerra e dei papaveri

Pubblicato il 17 Marzo 2014 alle 17:52 Autore: Ilenia Buioni
Afghanistan

Il volto opaco dell’Afghanistan

In occasione dell’ultimo discorso tenuto dinanzi al Parlamento, il Presidente Hamid Karzai ha affermato che sono ormai maturi i tempi perché i soldati americani lascino il Paese entro la fine dell’anno. Una posizione ribadita con fermezza, nonostante il generale J. Dunford, comandante del contingente occidentale in  Afghanistan, ritenga piuttosto che il ritiro completo delle truppe internazionali potrebbe determinare la sfortunata coincidenza di rinforzare il raggio d’azione di Al-Qaeda.

Sebbene la stabilità raggiunta non sia proprio quella che si attende da tempo, il Paese dichiara di essere in grado di ricominciare a vivere senza più interferenze esterne; il Presidente preme il bottone dell’autonomia e il 2014 volta le spalle ad un’era di sangue e disillusione.

È ovvio che la prossima stagione politica da inaugurarsi con le prossime elezioni presidenziali non sarà sufficiente a cancellare dalla memoria gli anni trascorsi, consumati tra guerra e cieche ambizioni politiche, oltre dodici anni di storia afghana, sintesi di quel conflitto cominciato il 7 Ottobre 2001. Allora, una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU istituiva la missione Isaf che presto sarebbe stata affidata alla NATO; allora, il popolo afghano imparava a conoscere i contingenti di ben 49 Paesi ospitati sul proprio territorio.

karzai

Sul finire dell’anno, a Dicembre, era in corso a Bonn un meeting tra i dissidenti politici afghani: si cominciava a parlare di Hamid Karzai.  Un nome quasi sconosciuto, il volto che l’Assemblea Legislativa della Loya Jirga nominava Presidente dell’Amministrazione Transitoria, che avrebbe condotto il Paese alla riorganizzazione istituzionale. Ma Hamid Karzai è stato anche colui che, per merito del supporto statunitense, ha vinto le presidenziali del 2004 e poi ancora del 2009.

Una figura politica  sulla quale sono state gettate luci ed ombre, ignorato fino a pochi anni prima dalla maggior parte dell’elettorato e bollato ironicamente come niente più che “il sindaco di Kabul”.

Un Presidente che – specialmente negli ultimi tempi – ha preso le distanze dagli Stati Uniti: per alcuni, un voltagabbana che ha aderito alle istanze di marca nazionalista; per altri, un uomo che comincia a credere nel futuro del proprio Paese.

 

Un Afghanistan diverso … ma fino ad un certo punto

Il Governo si dichiara pronto a supportare l’appuntamento elettorale di Aprile, garantendone la libertà e la trasparenza; i negoziati di pace con i Talebani restano una priorità inderogabile, nonostante il Pakistan tenda a proteggere la leadership del movimento, così da legittimarne indirettamente le azioni terroristiche.

Sulla scia di chi sta già fantasticando sullo sviluppo sociale e democratico dell’Afghanistan, si inseriscono anche le rassicuranti previsioni di alcune agenzie internazionali operative nel Paese, pronte a descrivere un futuro che si tingerà di rosa.

È principalmente l’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale ad essere mossa dal desiderio di predisporre una serie di programmi idonei a garantire la crescita nel lungo periodo, in modo tale da potenziare il tenore di vita della popolazione.

Se questi sono gli obiettivi, le prossime elezioni potrebbero costituire lo strumento per realizzarli.

narcotraffico

Effettivamente, negli ultimi anni la presenza internazionale ha apportato alcuni miglioramenti, ma non si può correre il rischio di sopravvalutare il livello di avanzamento, così come non si può evitare di far luce sul degrado che si estende ancora da Herat a Kandahar, a Kabul.

Adesso che la missione Isaf volge al termine, l’Afghanistan vorrebbe chiudere gli occhi davanti ai mali che lo tormentano e pretende di afferrare la chimera della stabilità politica, e magari anche sociale, miraggio di un’epoca privilegiata.

È un Paese, l’Afghanistan di oggi, gonfio di corruzione, vinto dalle piaghe sociali, ma soprattutto affetto da una malattia che si chiama narcotraffico (da cui proviene il 4% del Pil): un contrabbando che nasce tra le bellissime distese di papaveri viola che ricoprono specialmente le regioni del Sud e dell’Ovest e che muore nel decadente abbandono, nell’anormalità di una Nazione che ritiene già di farcela da sola.

Si parla troppo facilmente di sviluppo e di progresso che, a ben vedere, non ci sono e non ci saranno, a meno che non sia creato al più presto un antidoto contro il traffico di droga, la prostituzione, la discriminazione di genere, lo sfruttamento minorile, l’analfabetismo.

 Luttine Ilenia Buioni