Il PD lacerato: tra dissidenti e rischio espulsioni

Pubblicato il 10 Ottobre 2014 alle 11:19 Autore: Emanuele Vena
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Dopo il Jobs Act, la resa dei conti. E’ questo quanto emerge dalle vicende interne al PD nelle ultime settimane, in particolar modo dopo l’accelerazione della maggioranza renziana sul Jobs Act e sull’articolo 18. E le parole di Bersani – che avrebbe preferito dare la priorità alla lotta all’evasione piuttosto che alle riforme del lavoro – sono solo l’ultimo tassello della guerra fredda interna al partito.

TENSIONE – Nonostante lo stesso ex segretario smentisca l’idea di “dare una coltellata a Renzi”, il passaggio del Jobs Act alla Camera potrebbe confermare i profondi dissensi in seno al Partito Democratico. E c’è chi, come il quotidiano leghista ‘La Padania’, parla già dell’eventualità di “Purghe Democratiche“, giocando con le iniziali “PD”.

DISSIDENTI – Di certo va registrato il malumore della maggioranza nei confronti dell’atteggiamento tenuto sul Jobs Act dai senatori Mineo, Ricchiuti e Casson. E se il premier preferisce concentrarsi sull’atteggiamento “responsabile” di Walter Tocci – che ha annunciato di voler risolvere il proprio disagio non facendo mancare la fiducia al testo sul lavoro ma dimettendosi subito dopo – ringraziandolo e sperando di fargli cambiare idea, tocca al suo vice, Lorenzo Guerini, affondare il colpo contro gli altri dissidenti. Nell’annunciare che l’astensione dei dissidenti sul Jobs Act “sarà affrontata nell’assemblea del gruppo Pd a Palazzo Madama”. Guerini sottolinea che “non partecipare a un voto di fiducia che è politicamente molto significativo mette in discussione i vincoli di relazione con la propria comunità politica”. Si sbilancia anche il ‘mite’ Roberto Giachetti, che chiede misure “formali verso chi ha scelto di non votare la fiducia mettendo a rischio la tenuta stessa del governo”.

Corradino Mineo, uno dei senatori ribelli

CIVATI E FASSINA – Dinanzi allo spettro dell’espulsione – che non preoccupa certo Mineo, che a tempo debito ha bollato il tutto con un eloquente “mi caccino pure” – si erge la protesta di Pippo Civati: “Non si può avere un partito all’americana, con eletti con le primarie, e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico”. E poi aggiunge: “Se ci sarà un intervento disciplinare, si aprirà un bel dibattito sulla democrazia interna”. Dopo aver stroncato per l’ennesima volta il Jobs Act – “nessuno ha detto che ci candidavamo a governare il Paese per cancellare l’articolo 18” – Civati avverte: “Se sul jobs act metteranno la fiducia anche alla Camera, io non la voterò”. Ancor più duro Stefano Fassina – che aveva già annunciato di non voler votare il Jobs Act senza opportune modifiche – che ha deciso addirittura di scendere in piazza accanto alla Cgil e contro il Governo. Altro che provvedimenti disciplinari: la frattura insanabile sembra sempre più vicina.

L'autore: Emanuele Vena

Lucano, classe ’84, laureato in Relazioni Internazionali presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e specializzato in Politica Internazionale e Diplomazia presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Padova. Appassionato di storia, politica e giornalismo, trascorre il tempo libero percuotendo amabilmente la sua batteria. Collabora con il Termometro Politico dal 2013. Durante il 2015 è stato anche redattore di politica estera presso IBTimes Italia. Su Twitter è @EmanueleVena
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