Speciale ‘Festival del Giornalismo’ in diretta da Perugia #ijf14

Pubblicato il 29 Aprile 2014 alle 18:16 Autore: Redazione

Termometro Politico seguirà il Festival del Giornalismo in presa diretta grazie alla presenza a Perugia di Carmela Adinolfi e Clara Amodeo.

Le due ‘inviate’ ci racconteranno l’ottava edizione scrivendo aneddoti e curiosità e tutto quello che c’è da sapere di un evento che cresce di anno in anno coinvolgendo migliaia di persone.

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Quando un libro può mettere in dialogo un genitore col proprio figlio: la storia di Concita De Gregorio e di Lorenzo

Giornalista, scrittrice, direttrice e anche mamma: una Concita De Gregorio inedita quella che, al Teatro della Sapienza, presenta, assieme al figlio terzogenito Lorenzo, il suo libro “In viaggio con Lorenzo. Un giorno sull’isola”. Una storia d’invenzione scritta a quattro mani, che nasce come un gioco e che si trasforma in successo editoriale. “In estate – spiega De Gregorio – il passatempo preferito di Lorenzo era quello di inventare un racconto partendo da tre elementi che mio padre gli dava; quando il nonno si è ammalato, tuttavia, Lorenzo ha iniziato a inventare storie che avessero a che vedere col confine tra la vita e la morte”. “Sapevo – prosegue Lorenzo – che nonno aveva iniziato a raccogliere le mie storie ma, una volta morto, queste carte non si sono più trovate”. Tempo dopo Concita propone a Lorenzo di pensarci loro a riscrivere queste carte, ma la prima risposta del figlio è no. “Poi – continua Lorenzo – ho capito che mia mamma è la figlio di nonno, e che avrei potuto intraprendere questo lavoro pensando come se lui fosse ancora vivo. Da quel momento ho deciso di accettare”.

Concita De Gregorio

I due hanno così provato a ricreare quelle condizioni per cui, mettendo in campo il gioco, si affrontano temi importanti come la famiglia, l’amore, il futuro, la scuola: per farlo hanno ricreato tutte le condizioni che avevano permesso a Lorenzo, dieci anni prima, di partorire tante storie, ed eccoli andare su quell’isola in cui nonno e nipote passavano l’estate, lavorare a quattro mani, scambiarsi frasi e parole, costruire personaggi che un po’ si somigliavano, raccontarsi per la prima volta nonostante l’incomunicabilità che da sempre segna la generazione di Lorenzo. “Il tema dell’incomunicabilità – prosegue la De Gregorio – è molto interessante soprattutto oggi: fare giornalismo significa infatti mettersi in sintonia con la realtà e trovare un dialogo con quelle persone in cui vivi quel momento. Questo libro è dunque un esercizio che, attraverso un mezzo vecchio com’è quello della narrazione inventata, spinge a una possibilità altrimenti inesplorata: esprimere sentimenti che sarebbero altrimenti impossibili da spiegare. Ed è un po’ il limite di questa generazione bombardata dalla tecnologia: è vero che il lavoro di chi viene dopo è quello di eliminare le incrostazioni di un passato vecchio e barricato, ma spesso capita che in questa operazione di piazza pulita si buttino strumenti fondamentali. Eppure penna e scrittura non cadono mai in prescrizione!”. Ma è Lorenzo a chiudere l’intervento con una riflessione fondamentale: “Forse la soluzione sta nel sapere usare un linguaggio vecchio attraverso i nuovi spunti di chi vuole fruirne ora”.

Clara Amodeo

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Il gioco d’azzardo? Una vera e propria malattia che va curata

Non di ludopatia, malattia del gioco in generale, ma di azzardopatia, che interessa nella fattispecie il gioco d’azzardo, tratta Nadia Toffa, giornalista del Le Iene, nel suo libro “Quando il gioco si fa duro”, presentato all’Hotel Brufani. “Ho sentito l’urgenza di scrivere questo libro – spiega Toffa – perché il gioco d’azzardo si sta manifestando in un vero cambiamento del tessuto sociale delle nostre città: a ogni angolo ci sono sale giochi, bar con slot machines, e quasi non ci ricordiamo i giochi che esistono.

Partendo da questo cambiamento, ho iniziato la mia ricerca e ho scoperto che non conviene a nessuno, né ai giocatori né allo Stato: se dieci anni fa, infatti, la spesa annuale nel gioco d’azzardo ammontava a 24 miliardi di euro, oggi siamo passati a 85 miliardi di euro; lo Stato, tuttavia, ha avuto in questi dieci anni un incremento di incasso pari a un “solo” miliardo di euro, da 7 a 8 miliardi”.Le sale giochi, poi, hanno vetrine oscurate come per creare un eterno presente, mentre all’interno ci sono casse di risonanza che rimbombano il suono delle macchinette, il buio fa risplenderne il colore, c’è la sala fumatori e viene offerto da bere agli avventori: è tutto studiato come tanti meccanismo del gioco. Eppure non siamo pronti: “Bisognerebbe – continua – dimezzare l’offerta, perché dietro ogni gioco nuovo c’è un vero crack familiare che colpisce tanto gli adulti quanto i giovani: sono1 milione 200 mila i ragazzi che giocano d’azzardo!”.

Toffa

Dobbiamo dunque guardarci attorno perché l’azzardopatico potrebbe essere chiunque; e poiché si tratta di una malattia che non dà sintomi visibili di sé, la società attuale tende a sottovalutarla, considerandola un vizio e non curandola adeguatamente. Inevitabile il riferimento a Las Vegas: “La situazione americana è ben diversa da quella italiana: là, infatti, il gioco on line non esiste, e Las Vegas crea una situazione di gioco assai meno alienante di quella dell’Italia: ci sono normali tavoli da poker in cui non si è da soli, c’è il croupier, uomo di esperienza che ti può fermare quando vede che le cose ti stanno sfuggendo di mano, ci sono persone attorno”. Non è un caso che sul New York Times sia recentemente uscito un numero sul gioco d’azzardo in Italia..

Clara Amodeo

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Giornalisti e politici: quella lunga guerra da Craxi a Renzi

Politici contro giornalisti. Giornalisti contro politici. Una lunga guerra che sembra non volersi risolvere con un armistizio. Un conflitto figlio di una deontologia che ha distorto il modo di intendere la professione, allontanando sempre più i giornalisti dal rivestire il ruolo di “watch dog” dell’informazione. Un problema che interessa in maniera trasversale tutte le testate italiane: Corriere della Sera e Repubblica su tutte. Un atteggiamento che ha portato a confondere i ruoli e ha attraversato indistintamente Prima e Seconda Repubblica, trovando nel fenomeno Renzi il suo momento di crisi. A discuterne, in uno degli ultimi incontri dell’ottavo Festival del Giornalismo che si avvia alle battute finali, professionisti dell’informazione: Alessandra Sardoni di La 7, Goffredo de Marchis firma di Repubblica, Maria Teresa Meli del Corriere.

A moderare l’incontro il direttore di Europa Stefano Menichini. Sul banco degli imputati gli stessi giornalisti “rei” di aver contrastato spesso il potere in maniera soft o addirittura di esserne diventato il competitor diretto. “Il problema – ribadisce Maria Teresa Meli – è che i giornalisti sono diventati di volta in volta l’opposizione dei politici”. “Per anni – continua la giornalista – i giornali hanno dettato l’agenda alla classe politica”. L’attacco, nemmeno troppo velato, è al giornale di Ezio Mauro che, in questi ultimi vent’anni ha fatto da opposizione a Silvio Berlusconi. Accuse da cui De Marchis, firma di Repubblica, non si sottrae, rivendicando la centralità del suo giornale nel processo di risveglio dell’opinione pubblica. “Ora la storia è cambiata – dice De Marchis – è Renzi che detta l’agenda e i giornali devono rincorrerlo”.

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Il presidente del Consiglio “sorprende” per l’abilità che esibisce nell’usare le tecniche di comunicazione. Renzi usa la “tecnica del rilancio – spiega De Marchis – non fa in tempo a presentare un provvedimento che subito ne annuncia un altro. E questo è linfa per i giornali che sono sempre a caccia di tioli da prima pagina e lanci d’agenzia”. Renzi e Craxi, questo il titolo dell’incontro. Due personaggi così simili e così diversi, ma che hanno condizionato e continuano a condizionare la politica. La stessa capacità di dividere, di istituire nuove categorie: renziani e antirenziani, gufi e civette, maghi e mestieranti. E l’informazione? “L’informazione sta a guardare” dice Alessandra Sardoni. “E l’opinione pubblica magari si inalbera se in una trasmissione si cerca di fare le pulci all’attività di Renzi”, spiega il volto noto di La 7. Fare le pulci, scavare a fondo, verificare, questa la via d’uscita per tornare a dare al giornalismo il suo ruolo di “mediatore” tra gli attori politici e la società civile.

“L’unico modo – dice la giornalista di La 7 – per permettere alla categoria di riconquistare l’accountability persa nel corso di questi anni”. Cattiva informazione, non solo cattiva politica in un mondo che ormai non ha più bisogno di mediatori e in cui il ruolo del giornalista perde di funzionalità nel momento in cui il Presidente del Consiglio “predilige Twitter piuttosto che una conferenza, un’intervista per comunicare”. Un premier “smart”, che costringe reporter e giornalisti alla rincorsa. “Renzi – sottolinea Meli del Corriere – ha contribuito a rivelare la debolezza del giornalismo italiano, ovvero essere molto poco obiettivo, farsi spingere dalle simpatie politiche”.

Tant’è che Renzi “come Craxi è divisivo”. Al momento, uno svantaggio per la stampa italiana “che sembra non aver preso ancora bene le misure” col fenomeno Renzi aggiunge Alessandra Sardoni. Ossa rotte per i giornalisti di casa nostra, dunque. Un’occasione, però, dice De Marchis: “evitare stavolta di fornire un’interpretazione titanica del leader, così come è stato fatto per Berlusconi per oltre vent’anni”. Difficile a farsi, soprattutto per la sinistra, che ha da poco trovato nell’ex-rottamatore il suo leader “non più fantasma”.

Carmela Adinolfi

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A occhi aperti: il fotogiornalismo e il racconto di guerra

Il legame fra la fotografia e il giornalismo. A occhi aperti, per guardare la storia con e attraverso gli occhi di chi è stato sotto i bombardamenti ad Aleppo o ha vissuto la Cecenia dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Non solo giornalisti che raccontano con la parola, un computer e una connessione telefonica. Ma anche i fotogiornalisti, i fotografi di guerra, il cui lavoro spesso passa indisturbato, sotto banco. Testimoni e testimonianze raccontate nel corso della presentazione del libro di Mario Calabresi “A occhi aperti”, in cui il direttore de La Stampa ha raccolto le storie di vita di alcuni importanti fotoreporter internazionali: da Steve Mc Curry a Don McCullin da Gabriele Basilico a Abbas. “Non un libro sulla fotografia ma sul giornalismo, sull’essenza del giornalismo: andare a vedere, capire e  testimoniare” ha detto Calabresi. “Perché fare il giornalista è come fare il fotografo” ricorda il direttore de La Stampa, rifacendosi alle parole del suo inviato Domenico Quirico, rilasciato dopo 5 mesi di prigionia in Siria nel 2013, che in una discussione pochi giorni fa aveva spiegato il perché stimasse così tanto i fotoreporter: “Il vedere è l’esercizio fondamentale del giornalismo. Esiste solo un modo: immergersi in quello che racconti. Buttarsi. Immergersi in un pozzo, nel pozzo della realtà e poi andare più a fondo possibile – ha detto Calabresi leggendo le parole di Quirico – e riemergersi portando più cose possibili addosso, sulla pelle. L’unica cosa che non posso fare è stare sul bordo del pozzo e guardare il riflesso, perché il riflesso non è la realtà. È una realtà falsa” ha concluso.

Calabresi

A discutere con Calabresi, in Sala dei Notari, tre giovani fotogiornalisti italiani di rilievo internazionale: Pietro Masturzo, vincitore del Word Press Photo nel 2010 che ha raccontato l’”onda verde” di Teheran in un reportage che gli è valso il riconoscimento internazionale. Davide Monteleone, fotoreporter che vive fra la Russia e l’Italia e Riccardo Venturi, fotogiornalista di livello internazionale, con esperienza decennale sul fronte caldo delle guerre in Kosovo, Somalia, Libia e nella striscia di Gaza. Tre racconti mozzafiato, in cui è emersa la normalità a contrasto con l’eccezionalità della quotidianità dei fotografi di guerra. “L’arresto e il rilascio dopo pochi giorni” racconta Masturzo che, dopo essere entrato in Iran con un visto turistico ha cercato di raccontare “l’onda verde” attraverso il punto di vista dei cittadini e di quanti protestavano a pochi giorni dalle elezioni che avevano confermato Ahmadinejad presidente dell’Iran. Un lavoro difficile, che mette a rischio anche l’incolumità personale. “Chi te l’ha fatto fare” è la domanda che i tre fotoreporter si sentono ripetere più spesso. “La passione per il racconto di mondi lontani dal nostro” risponde Venturi e l’esigenza di sapere “senza mediazioni”. Un incontro emozionante, in cui si è più volte sottolineato il “cambiamento” a cui  la professione del fotoreporter  ha dovuto adeguarsi negli ultimi anni. La convivenza con le nuove forme di “giornalismo istantaneo” degli smartphone. Una differenza, quella fra il fotogiornalismo professionale e amatoriale, che comunque resta e che fa del fotogiornalismo di professione ancora l’unico mezzo “altamente espressivo” per “raccontare le storie”.

Carmela Adinolfi

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Laura Boldrini, LA presidente

Lei è una presidente, e si batte affinchè il suo ruolo istituzionale rimanga tale a livello tanto lessicale quanto culturale: lei è Laura Boldrini, presidentessa, non a caso della Camera dei Deputati e protagonista dell’incontro sponsorizzato da Enel “Leader. Femminile singolare”, oggi in Sala dei Notari. La prima domanda che sorge spontanea in un incontro come questo è quanto le quote rosa soddisfino una donna che si batte per i diritti del genere femminile: “Le quote non mi soddisfano: la nostra società deve dimostrare di essere avanzata senza avere la necessitò di creare questa iniziale disuguaglianza. Certamente, il 47% delle donne lavora e le quote sono una garanzia di rappresentanza, ma è pur sempre umiliante per noi. E poiché non siamo la Norvegia o la Svezia, per abbattere queste barriere, le donne devono ricoprire ruoli chiave di potere per fare la differenza nel benessere della Repubblica”. Il discorso, poi, vira verso i sindacati: in occasione del primo maggio, infatti, è stato Napolitano a sostenere che “i sindacati devono avere un ruolo nuovo verso disoccupati e giovani”: “Le istituzioni – prosegue Boldrini – non devono tapparsi le orecchie di fronte ai cittadini che protestano. I giovani angosciati che io ricevo devono essere ascoltati tutti perché c’è un’economia etica che non va assolutamente penalizzata: sono 2 milioni i giovani in Italia che, assieme alle donne, hanno bisogno di tutela e rappresentanza: queste due categorie sono state infatti spesso vessate, ma è arrivato il momento di porle al centro”.

Boldrini

Critiche a lei, invece, sono giunte dal M5S: Di Maio ha infatti affermato che la Boldrini “li detesta” quando lei ha definito eversive alcune loro azioni: “Dico solo – controbatte Boldrini – che pensare che io li detesti è un’illazione di chi la fa. Io non ho nemici, ho una cultura di pace e di confronto quindi mi dispiace deludere chi lo dice ma io non li detesto”. E proprio oggi Di Maio ha proposto un’app per permettere ai cittadini di monitorare chi entra e chi esce da Montecitorio e di limitare le zone di accesso dei giornalisti: “Per 25 anni ho lavorato fianco a fianco coi corrispondenti e con gli inviati, persone che rischiano la propria vita per informare: considero dunque la libertà di espressione un valore assoluto perché so cosa significa vivere in paesi che non l’hanno. Quindi, finchè sarò presidente della Camera i giornalisti non avranno nessuna restrizione”. Ultimo è il riferimento a un tema scottante della politica: la riforma del Senato. “Il bicameralismo perfetto non funziona – chiosa Boldrini – perché è un sistema molto lungo coi tempi, farraginoso: è imperativo, dunque, che ci sia una riforma”.

Clara Amodeo

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La Storia secondo Paolo Mieli

Memoria, oblio, riscrittura: c’è la tutta la storia con la “S” maiuscola in “I conti con la storia”, il nuovo libro di Paolo Mieli presentato oggi alla sala dei Notari. A partire dagli archivi e dalla documentazione scritta, che Mieli racconta nella contemporaneità della politica italiana; ecco, infatti, come si pone nei confronti della proposta di riaprire gli archivi per far luce sulle stragi di Stato: “Da due secoli a questa parte crediamo al mito che dietro ogni questione risolta ci sia un mistero, una congiura, che, tanto, verrà appianata dai poteri buoni del momento: solo loro, attraverso la rilettura delle carte, sapranno spiegarci cosa sia realmente accaduto. Ma non è così: il mito del documento rivelatore è solo un mito, e vi sono molti esempi, dall’antichità alla Prima Guerra Mondiale, che lo dimostrano”. E allora come si porta avanti la memoria? “La memoria – prosegue Mieli – termine tanto osannato, non esiste se non vi è oblio. Ciò significa che abbeverarsi dall’acqua avvelenata degli anni passati in una stagione successiva, è controproducente e quanto di più menzognero possa esistere:  bisogna dimenticare i motivi, pur legittimi, per cui si è giunti a un dato evento storico e avviarsi altrove. Solo così si giungerà a un momento nuovo altrettanto importante”.

Paolo Mieli

Inevitabile è anche il riferimento la mondo dell’informazione: “La differenza tra la storia fatta e quella che si farà è che poiché oggi viviamo in una delle epoche divulgative più fantastiche, tutti quei complimenti fatti al passato, ai quali sono tuttavia legato perchè sono complimenti che facciamo a noi stessi ragazzi, sono in realtà fesserie: a guardarli con l’occhio della modernità, sono documenti imbarazzanti!”. C’è tuttavia da stare attenti, senza osannare ciecamente il nuovo: “Il rischio del mondo global è che la molta immondizia si mescola alle cose verificate e serie, producendo un effetto tossico: il mondo di internet è un mondo che non conosce l’oblio, che non sa selezionare, e che è aggressivo; compito degli storici del domani è sapersi districare in questa giungla, per dare alle nuove generazioni solo il meglio”. Si chiude infine con le proteste localistiche che l’ultimo 25 aprile ha portato con sé: “I vari no Tav, no ponte ci sono stati perché normalmente la protesta del 25 aprile si fa contro Berlusconi: ora che Berlusconi non c’è più, la protesta si è trasferita altrove. La soluzione non è però questa: ricondurrei infatti la celebrazione sulla sua vera natura storica”.

Clara Amodeo

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Ribellarsi, impegnarsi e viaggiare sono gli ingredienti per quei giovani imprenditori che vogliono andare oltre la crisi

Non c’è nulla da fare: a un giornalista che, come Corrado Formigli, ha per anni vissuto la vita dell’inviato ma che ora si trova a condurre un programma in tv, Piazza pulita su La7, manca il contatto con le persone. Ecco perché, nel suo “Impresa impossibile, presentato oggi nella Sala dei Notari, ha deciso di prendere la macchina, girare per l’Italia e captare, tra la gente, un cambiamento possibile per una generazione futura. Purtroppo lo scenario che ne è uscito non è consolatorio: andando a intervistare otto imprenditori, “piccoli grandi eroi italiani” come li definisce Formigli, l’impressione è stata quella di avvicinarsi a un popolo appena uscito dalla Terza Guerra Mondiale. Ma forse una speranza c’è: il segreto sta infatti nel non accanirsi in nuove forme economiche ma nel produrre poco e bene: bellezza, generosità, sobrietà diventano dunque oggi le parole d’ordine per un imprenditore che si rispetti.

Toscani

Il fotografo Oliviero Toscani è uno di loro: “Nel 1960 avevo 18 anni: ho vissuto il dopoguerra, ho contestato il benessere prima del Sessantotto e oggi posso consigliare ai giovani di non fidarsi dei propri padri, di mandare al diavolo le proprie madri protettive, di imparare le lingue. In qualità di italiani, abbiamo una capacità immaginativa e manuale imparagonabile in tutto il mondo: e da lì dobbiamo ricominciare, non dalla televisione, non dal Drive In”. E proprio da una giovane, Benedetta Bruzziches, designer, giunge una testimonianza fondamentale: “Vengo da Viterbo, punto di riferimento per la produzione della maglieria, e mi sono accorta che, da quando le produzioni si erano spostate all’estero, le donne prima impiegate non avevano perso solo alla possibilità di conservare il patrimonio artigianale italiano, ma anche la possibilità di incontrarsi e stare assieme. È dunque attraverso la condivisione, la rete che un Paese sta assieme: per questo io e i miei fratelli abbiamo creato un gruppo che lavora assieme ad “artigianauti” alla ricerca di attività artigianali che senza di loro, nel giro di 20 anni, rischiano di perdersi”. Eppure nel mondo godiamo di un’altissima reputazione: nonostante i mille difetti, il marchio italiano è frutto di quella creatività che Oliviero Toscani definisce “materia che c’è tra cuore e cervello e che deve venir fuori attraverso quell’entusiasmo che è la vita”.

Clara Amodeo 

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Testimoni da tutto il mondo per la giornata mondiale della libertà di stampa

Un hashtag, #wpf, per identificare la giornata di oggi, dedicata alla libertà di stampa in tutto il mondo. Se ne parla, al Centro Servizi G. Alessi, in compagnia di illustri testimoni proprio mentre 9 colleghi di Al Jazeera sono ancora prigionieri in Egitto. “Seguo l’Egitto da quando, tre anni fa, 20 persone di cui 9 giornalisti di Al Jazeera furono sequestrati – dice Laura Cappon, giornalista freelance – L’accusa mossa ai reporter è di collaborazionismo coi fratelli musulmani, che, essendo un’organizzazione terroristica, si è trasformata in accusa di collaborazione terroristica.

Tuttavia, loro non sono le uniche vittime di questo oscurantismo che è seguito alla rivoluzione: dalla deposizione di Morsi, avvenuta il 3 luglio scorso, le condizioni di tutti gli addetti alla stampa è peggiorata; la campagna militare ha infatti portato a odiare la stampa, gli islamisti, i fratelli musulmani e qualunque voce contro il Governo e questa fobia ha coinvolto anche la popolazione. Noi, dal canto nostro, abbiamo paura di tutti, tutti sono nostri potenziali nemici, quando invece prima c’era un supporto popolare verso quell’informazione che raccontava la rivoluzione e il sentimento popolare”.

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Diversa, ma sempre vessata, la condizione dei giornalisti in Turchia: “Quattro – dice Yavuz Bayard, co – fondatore P24 – sono i criteri che, secondo un report del primo maggio, indicano il tasso di libertà di stampa di un Paese: sicurezza, diversità, indipendenza, libertà. Per quanto riguarda la Turchia, non abbiamo avuto molti problemi con la diversità e il pluralismo, ma libertà e indipendenza sono venute meno, come sta accadendo alle democrazie emergenti di Turchia e Balcani: qui infatti vengono adottate misure punitive verso i media che si risolvono in licenziamenti e incarcerazione di chi difende la professione del giornalismo.

In Turchia ci sono 30 giornalisti in detenzione, per lo più curdi, e io stesso sono stato licenziato per la mia opposizione al Governo”. Il messico di Diego Enrique Osorio, giornalista e regista, è uno dei luoghi più pericolosi del mondo per esercitare il lavoro di giornalista: “In Messico – spiega Osorio – per la prima volta la stampa ha aiutato a mettere al potere un presidente: dal 2000, dunque, si è sperato che la situazione potesse migliorare. Ma non è stato così. Ha infatti dovuto lasciare il Messico per poi tornare in una terra in cui la millantata democrazia ha portato all’uccisone e all’incarcerazione di molti giornalisti. Il Governo, infatti, non solo non protegge i giornalisti ma la società stessa non li protegge”.

E cosa accade in Italia? Lirio Abbate, de L’Espresso, racconta: “Le minacce in Italia sono diverse da quelle raccontate: pochi sono i giornalisti licenziati, ma molti vengono minacciati, da studi legali che chiedono milioni di euro di risarcimento o, addirittura, di morte. Di solito c’entra la mafia e questo dice quanto è importante e pericolosa l’informazione: importante, perchè anche la criminalità crede all’informazione, pericolosa perché alcuni ci rimettono la vita”.

Clara Amodeo

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L’intervista di Beppe Severgnini ad Amazon.

 speciale festival internazionale del giornalismo di perugia a cura di termometro politico

Riportiamo qui la conversazione, “insolita e fluviale”, tenutasi alla Sala dei Notari tra Diego Piacentini, senior VP International Amazon, e Beppe Severgnini, l’irriverente e geniale giornalista del Corriere della Sera.

B.S.: La regola di Amazon è “vendiamo di tutto salvo alcol, tabacco, porno e armi”: dato questo assunto, hai mai preso qualche decisione difficile?

D.P.: Sì, e l’esempio più recente è quello del Giappone dove è legale vendere carne di balena e di delfino: qui server di Amazon ha proposto agli acquirenti tali prodotti e io, nonostante il parare contrario del team giapponese, ho scelto di non vendere né l’una né l’altra carne.

B.S.: Ci sono state polemiche in materia di assunzioni e condizioni di lavoro nel magazzino di Piacenza: questo ti ha amareggiato?
D.P.: Sì, un po’, soprattutto perché i magazzini di Piacenza sono davvero belli, ma del resto qualcosa di negativo è inevitabile che capiti. Ci sono state anche polemiche sui metal detector di alcuni magazzini che, vecchi e mal funzionanti, creavano lunghe code all’entrata e all’uscita dei dipendenti: questa è stata una polemica fondata che abbiamo tuttavia corretto, traendone spunto per migliorare le condizione lavorative dei nostri dipendenti.

B.S.: Qualche giorno fa Mediaset vi ha messi nel gruppo dei neocolonialisti: cosa pensi di questa tua posizione di vicerè?

D.P.: In Europa abbiamo 5 filiali, quindi la necessità di avere un network europeo per gestire tutte le necessità è ovvia. Tuttavia, paghiamo le tasse, seguiamo le leggi in modo attento, quindi mi sento tranquillo.

B.S.: Cos’è il door desk?

D.P.: E’ la rappresentazione della frugalità di Amazon: all’inizio, per risparmiare, le scrivanie altro non erano che porte vecchie messe in orizzontale; da quel momento, il door desk è diventato un segno di Amazon, trasformandosi addirittura in premio aziendale che, tre volte all’anno, viene dato ai dipendenti.

B.S.: State considerando per davvero di consegnare gli oggetti con i droni?
D.P.: Sì, è una cosa che ha molto senso!

B.S.: Come motivi il gesto di Jeff Bason sul Washington Post?
D.P.: E’ stato un modo per alimentare la politica di un Amazon sempre “about invention”; escludo dunque che il suo sia stato un tentativo di influenza politica a Washington.

B.S.: Ci sono delle novità importanti tra i vostri prodotti, tra cui Fire e Dash.

D.P.: Non siamo i primi, siamo arrivati dopo ma con la prospettiva di fare sempre meglio degli altri. Kindle, da quel punto di vista, è stato un atto di fede incredibile che si è trasformato in una vera fortuna. Su Fire abbiamo applicato la possibilità della ricerca vocale per i film, mentre con Dash è possibile ordinare online generi alimentari che vengono riconosciuti attraverso un dispositivo che ne legge il codice a barre e li cerca in rete.

B.S.:  Qual è il vostro principale fornitore di quest’ultimo genere di prodotti?

D.P.: Facciamo tutto noi, non andiamo da Walmart ma dal produttore a rifornirci dai magazzini .

B.S.: Non ti capita di avere complessi di colpe? Se tutto questo passa, non esisteranno più i negozi..

D.P.: E’ Internet che sta facendo la storia, e noi non facciamo altro che usarlo. Quello che sta succedendo alle librerie è il futuro, non è Amazon: è il futuro che sta cambiando molto vecchiume.

B.S.: FCC non ha escluso che, negli Usa, ci siano corsie preferenziali in rete per alcuni brand: cosa ne pensi?

D.P.: Ci adegueremo ai cambiamenti, di certo non ci opporremo: è una questione che affronteremo quando sarà utile affrontarla, ma di sicuro non ci spaventa.

B.S.: Qual è la vostra politica in materia di condivisione di dati?

D.P.: Combattiamo per evitare lo sharing di dati del cliente.

B.S.: Sembra che siate nel mood del get big fast: ma siete già big!

D.P.: Quando i successi arrivano si è sempre portati a investire di più di dove si è arrivati. E noi non siamo da meno.

Clara Amodeo

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Incontro sulla ‘Terra dei Fuochi’ al Festival Internazionale del Giornalismo

La “terra dei fuochi”, così chiamano quel lembo di terra tra Napoli nord e Caserta sud, è un problema arrivato nelle case degli italiani solo di recente. Tv e giornali nazionali hanno ignorato per vent’anni i problemi e le esigenze di quella  popolazione che, nel triangolo della morte con epicentro Caivano, veniva lentamente decimata dalla scure del cancro e da un tasso di incidenza dei tumori 10 volte più alto rispetto alla media nazionale.

Negare il “nesso tra i malati di tumore e l’ambiente malato” è stato per anni uno sport nazionale. Uno stile di vita sregolato, la tendenza all’obesità e tante altre “cattive abitudini” gli specchietti per le allodole a nascondere problemi ben più gravi come lo smaltimento illegale di rifiuti con cui le ecomafie hanno alimentato per anni il loro business milionario, avvelenando le terre di  una Campania non più  “felix”. Ricadute sul tessuto sociale e modifiche strutturali che hanno visto intrecciarsi per anni gli interessi di istituzioni,  lobby e organizzazioni criminali. Una riflessione che, inevitabilmente, non ha potuto esaurirsi in uno degli incontri più affollati del Festival internazionale del Giornalismo 2014, in corso in questi giorni a Perugia. Con Raffaello Magi, magistrato, protagonista del processo Spartacus, che nel 2010 ha portato alla condanna di diversi esponenti del clan dei Casalesi, fra cui il boss Francesco Schiavone, a raccontare la “terra dei fuochi” molti protagonisti che, da prospettive diverse, si occupano da decenni di raccontare la connivenza tra politica e criminalità in quelle zone martoriate dalle attività della Camorra e della mala politica.

dibattito su terra dei fuochi a festival del giornalismo di perugia

 

A moderare l’incontro Franacesca Ghidini, giornalista Rai. Con lei Amalia De Simone e Marco Demarco del Corriere della Sera, Filippo Facci di Libero e il giornalista Giuseppe Manzo. Ospite d’onore il Ministro della Giustizia Andrea Orlando.  Il guardasigilli del governo Renzi ha difeso più volte il decreto convertito in legge, che prevede misure speciali per le terre così ribattezzate nel 2006 in un capitolo di Gomorra, il  bestseller di Roberto Saviano. Una su tutte: la deroga alle normative antimafia in materia di appalti pubblici e l’arresto in flagranza per chi viene colto a bruciare rifiuti in strada. Non poche le scintille con la De Simone che ha chiesto pubblicamente chiarimenti: “Quel decreto – ha detto  Orlando- è un pezzo della soluzione e l’ho costruito ascoltando i comitati.

terra dei fuochi al festival internazionale del giornalismo di perugia

La presenza dell’esercito per me è essenziale e l’inasprimento delle pene, pur non essendo risolutivo è importante perché altrimenti ci sarebbe una resa dello Stato”. “Il decreto – ha ribadito il guardasigilli – istituisce un fondo per lo screening sanitario e ha l’ambizione di arrivare ad un’unica banca dati, dando elementi di certezza”. Un problema, però, denunciano i protagonisti della stampa che gli stressi organi d’informazione hanno contribuito a tenere nell’ombra, aiutando i poteri forti a perseverare nel perseguimento degli interessi con cifre da capogiro. “Confindustria – ha ricordato la Ghidini, inviata Rai – non ha ancora chiesto scusa per le aziende che hanno sversato in maniera illegale i rifiuti”. I cittadini di quelle terre “sono vittime due volte, dei dati e dell’incomprensione”. “L’emergenza rifiuti doveva durare 10 mesi vent’anni fa” ricorda Demarco “ma oggi siamo ancora allo stesso punto se non peggio”. Nel frattempo è stato coniato il termine di biocidio ,mentre le organizzazioni criminali continuano a fare affari. Tre i nuovi business: le bonifiche, le speculazioni agro-alimentari di prodotti tipici e la gestione della sanità pubblica. Intanto, la “terra dei fuochi” continua a bruciare.

 

Carmela Adinolfi

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Non importa se multimediale o con carta e penna, nello storytelling è fondamentale essere presenti

Ai lati opposti del palco della Sala dei Notari si fronteggiano due modi diversissimi di fare storytelling nel giornalismo: da una parte Giordano Cossu, freelance di base in Francia, che ha realizzato un documentario sul ventennale della strage del Ruanda attraverso un approccio tecnologico alla narrazione. “Sono appassionato di modi narrativi nuovi – spiega Cossu – che, attraverso progetti cross e trans media, uniscano le foto alla parte scritta e al video interattivo. In Ruanda ho deciso di raccontare la vita dei prigionieri recentemente scarcerati a contatto con sopravvissuti e parenti di vittime che loro stessi hanno ucciso: l’ho fatto attraverso uno storytelling multimediale che passa da un personaggio all’altro di un villaggio e alla fine del quale chi lo guarda può scegliere un percorso, mettendosi nei panni di chi racconta la sua esperienza”. Dall’altra parte, invece, c’è Domenico Quirico, l’inviato de La Stampa che nell’aprile 2013 fu sequestrato dai combattenti in Siria: “Il racconto – spiega – deve partire da un rapporto etico con le persone che racconta: solo in quel modo l’approccio con la vita e la morte di cui si parla può cambiare. Il problema del rèportage non è, dunque, un problema di tecnologia ma di rapporto umano: è curiosità, passione, paura, condivisione.

Quirico

 

Ci sono addirittura posti in cui non solo è impossibile portare la tecnologia perché sennò te la rubano, ma dove è pure difficilissimo andare a raccontare perché sono luoghi pericolosi. Insomma, poichè non esistono tecniche del racconto, esiste solo un modo per scrivere una storia umana su un giornale: immergersi con qualunque mezzo con cui si lavora, siano essi gli occhi, le orecchie o la tecnologia di ultima generazione. L’unica cosa che non posso fare è stare sul bordo del pozzo e guardare giù: il mio riflesso non è la realtà”. In mezzo a loro, infine, c’è Mario Calabresi, direttore de La Stampa: personalità come la sua, i direttori, non hanno solitamente tempo di fare storytelling, eppure lui ci è riuscito e oggi racconta la sua espeirnza a metà tra quella di Cossu e quella di Quirico: “Mi sta a cuore mostrare come esistano vari modi di raccontare la realtà e uscire da un’ideologia sbagliata: quella che esista un solo modo tradizionale e antico, oppure, all’opposto, che esista solo un modo multimediale e che tutto il resto sia da archiviare come cosa vecchia. È lo stesso ragionamento di chi divide carta e on line: il giornalismo, in realtà, è uno! Ci dev’essere, dunque, un modo unico di fare giornalismo, e dev’essere quello di esserci e raccontare”. Un insegnamento prezioso, che tanto gli esperti quanto i novizi hanno l’obbligo etico di seguire.

Clara Amodeo

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Lobby e potere: quando la trasparenza è un diritto civile

Trasparenza, regolamentazione delle lobby e partecipazione attiva dei cittadini alla vita politica. Facile acceso ai dati della pubblica amministrazione e regolamentazione dei rapporti fra istituzioni e multinazionali. Il rapporto fra potere e lobby al centro dell’omonimo incontro, stamattina, nell’ambito del Festival del Giornalismo di Perugia. Fra i relatori, il vicepresidente della Camera dei Deputati Luigi di Maio, nel capoluogo umbro anche per la presentazione dei candidati grillini al consiglio comunale per le elezioni del prossimo 25 Maggio. “Trasparency is a human right” ripete più volte Helen Darbishire, fondatrice di Access Info Europe, una ong attiva nella promozione della trasparenza e della libera informazione.

Di Maio

 

Il tavolo è anche l’occasione per presentare il progetto Politics for People, una campagna lanciata in partenership con l’Osservatorio Europeo sulle Corporazioni. Un invito a partecipare, ad “informarsi ed essere parte attiva del processo decisionale” dice Pascoe Sabido responsabile dell’Osservatorio, soprattutto in vista delle elezioni europee del prossimo 25 Maggio per il rinnovo dell’Europarlamento. L’esercizio di un diritto, una vera e propria pretesa. Un appello che, però, rimane ancora inascoltato in Italia che ha una delle leggi più restrittive per l’accesso agli atti amministrativi, piazzandosi fra gli ultimi posti, in fondo alla classifica dell’accesso ai dati per i paesi dell’Unione Europea.

Una situazione di estrema difficoltà, con una percezione poco diffusa della “mancanza di trasparenza”. “La legge 241/90 all’articolo 24 proibisce di chiedere l’accesso alla documentazione governativa ad un privato cittadino” spiega Andrea Menapace, co-fondatore della ong Diritto di Sapere. “Il nostro obiettivo è sostituirla col Freedom of Information Act sul modello americano”. “Troppe parole e pochi fatti”, invece, tuona Ernesto Belisario, presidente di Open Government. “Sono stati presentati ben 53 disegni di legge – gli fa eco Luigi Di Maio – una lodevole iniziativa che, però, non può non essere seguita dai regolamenti attuativi. Dovremmo cominciare a valutare l’operatività delle istituzioni anche da quanto riescono a realizzare non solo da quanto promettono”.

E torna sulla querelle con la stampa parlamentare, scoppiata nei giorni scorsi: “ Ad oggi ci sono 1265 persone che possono entrare alla Camera con tesserini in legislatura. I giornalisti accreditati sono 411, di cui 75 in pensione. Non sono contro la stampa ma istituire un registro degli accessi e avviare un processo di digitalizzazione è un dovere verso i cittadini”. E conclude: “ devono sapere chi entra alla Camera, con chi si incontra, quante volte h avuto accesso ai palazzi delle istituzioni”. Uno strumento fondamentale per la trasparenza, in nome della salvaguardia della democrazia rappresentativa e a contrasto del rapporto malsano fra lobby e potere.

Carmela Adinolfi

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I primi quarant’anni di Andrea Scanzi.

Dagli anni di piombo a Tangentopoli, dalle canzoni di lotta al teatro di Paolo Rossi, da Massimo Troisi alla morte di Mario Monicelli: ci sono anni di vita, quaranta per l’esattezza, nel nuovo libro di Andrea Scanzi “Non è tempo per noi”, presentato, con l’accompagnamento musicale di Giulio Casale, storica voce degli Estra, al Teatro Pavone nell’ambito del Festival Internazionale del Giornalismo. Una descrizione lucida e puntuale di una generazione, la sua, che sembra avere una forza rimasta inespressa per tutto questo tempo, e che a maggior ragione adesso fatica a venire fuori: di chi è la colpa? È Scanzi che, con una personalissima chiave di lettura, cerca di dare una risposta: dopo che i ruggenti anni Ottanta avevano creato un deserto ideologico durato più di dieci anni, i ventenni dell’epoca pensarono che, con gli anni Novanta, avrebbero potuto cambiare il mondo; ed ecco, invece, piombargli addosso una brutta notizia dopo l’altra, Mani Pulite, la “discesa in campo” di Berlusconi, la fine del Pci a tarpare loro le ali.

E lì quelli che oggi hanno raggiunto i quarant’anni si sono fermati: non hanno avuto la forza, o il coraggio, di fare lo sprint finale come Marco Pantani quando, alla tirata dell’ultimo rush, dava il meglio di sé non per arrivare primo ma per scappare il più velocemente possibile da quella salita che tanto lo intimoriva. Non a caso Scanzi definisce il suo lavoro “non un ritratto ironico ma un’autopsia della mia generazione”, raccontata attraverso una serie di avvenimenti che hanno segnato l’immaginario del quarantenne di oggi: i girotondi di Nanni Moretti, la morte di Massimo Troisi e quella di Marco Pantani, Beppe Grillo che dal Drive In approda alla politica, il coetaneo Renzi che propone di rottamare ma non sa come sopperire alla mancanza in questo modo creata. Il tutto condito dal sapiente trascorso musicale di Giualio Canali, quarantenne anch’egli, che ha avvicendato gli interventi di Scanzi con canzoni in acustico di Ligabue, Battiato e Gaber, artisti che non possono mancare nella cultura di un possibile neo papà. E oggi cosa rimane? Nel caso di Scanzi, rimane un uomo che ha riversato la sua forza nel suo lavoro, quello del giornalista, ma che ogni tanto torna sui suoi passi e si domanda, ancora “what if..?”.

Clara Amodeo

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Verso l’integrazione assieme a Cècile Kyenge

Jean Claude Mbede, giornalista freelance etiope in Italia da sette anni, intervista, durante il panel discussion “Migrazione, integrazione, diversità dei media”, Angelo Gianpaolo Bucci, film – maker, e Beatrice Ngalula Kabutakapua, communication officier CIS, autori del documentario “(In)visibile city”. Il documentario, infatti, inizia nel marzo 2013 dall’idea di Beatrice di scoprire le diverse comunità africane in tutte le parti del mondo; poi, nel 2006, incontra Angelo Gianpaolo a Londra e da lì inizia la collaborazione internazionale, che li ha portati a toccare quattro città del mondo, con l’intento di aggiungerne altre sei. Ne è nata una ricerca molto vicina all’antropologia culturale, in cui sospetti e tensioni sono stati spazzati via dalla curiosità e da un comune senso di umanità. Lo stesso che Cècile Kyenge racconta nel suo “Ho sognato una strada”, il libro che racconta la sua vita, umana e politica, partendo dall’episodio del 1983, quando sua madre la prega di non voltare gli occhi al suo Congo nel momento in cui sta partendo per studiare medicina all’Università Cattolica di Roma: “Ero partita da là con una valigia enorme – ricorda la Kyenge – in cui c’erano solo due vestiti e un paio di scarpe. Il resto dello spazio era occupato dalla consapevolezza del diritto allo studio: quella valigia simboleggia il primo diritto che ho voluto portare avanti, la mia volontà di diventare medico. Io oggi sono medico, e voglio trasformare questo sogno personale in un progetto collettivo”. E da qui parte la sua storia di lotta a ritroso, quando, già a due mesi, lottò per la vita dopo essere stata decretata morta: “La diagnosi fu quella e mi portarono all’obitorio. Per fortuna non mi misero subito nella cella frigorifera e, passando di lì il medico che fece partorire mia madre, mi prese, mi portò fuori e dopo qualche ora ripresi a respirare”. Oppure quando la sua iscrizione a Medicina non andò a buon fine e l’Università la iscrisse a Farmacologia: “Insistivo a voler fare Medicina – prosegue – frequentandone i corsi, prendendone appunti e presentandomi agli esami. Alla fine la mia caparbietà ha avuto la meglio”.

Si giunge così al capitolo della politica, prima nei Ds e poi nel Pd: “Tra 2003 e 2004 iniziai a fare politica come consigliere di quartiere, perché per me fare politica significa stare tra le persone. Poi è iniziata la mia avventura nel Pd dove tutt’ora porto avanti la mia politica di integrazione con, al centro, le diversità come risorsa”. E poi il suo trascorso di deputato e, infine, di Ministro della Repubblica Italiana, avventura che oggi si è chiusa: “Rimpiango il fatto che oggi manchi una parte del progetto iniziato da Letta: la possibilità di vedere tutte le componenti delle comunità nella società, compreso il Governo, perché quella è l’Italia del domani. Purtroppo c’è ancora tanta strada da fare: tanti mi vedono come la ministra degli stranieri o degli africani, ma io sono la ministra di tutti, italiani e stranieri, visibili ma soprattutto invisibili, e come tale voglio portare avanti un progetto”. Un progetto che ora mira ad avere respiro europeo: “Ho lanciato una parola, ius soli, per dare l’opportunità a ogni persona di potersi confrontare, di poter guardare le seconde generazioni. Oggi esiste lo ius soli temperato, percorso di integrazione dei genitori che testimonia che i genitori hanno un progetto di stabilità, dopo il quale i bambini possono avere automaticamente la cittadinanza italiana per avere diritti dalla nascita e non dai 18 anni. Ma poiché questo confronto si è fermato, ho pensato di proporre ai miei colleghi, gruppo bipartisan di circa 60 partiti, di leggere, alla fine di ogni seduta, la storia di un bambino o di una bambina senza cittadinanza. E la lettura finirà il giorno che sarà calendarizzato il diritto alla cittadinanza”.

Clara Amodeo

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LGBT e comunicazione: quanta (poca) tolleranza c’è in Italia?

Cinque mesi fa Carlo Giuseppe Gabardini, volto noto dell’ancor più nota sit com “Camera Cafè”, postò su YouTube il suo coming out pubblico: un divertentissimo gioco di parole che, tra marmellata e Nutella, metteva a nudo la sua omosessualità. Oggi, venerdì 1 maggio, all’incontro “Comunicazione e giornalismo alle prese con le tematiche LGBT” nel Centro Servizi G. Alessi, presenta in anteprima al pubblico dell’ijf2014 il suo secondo video: una denuncia contro la discriminazione cui spesso la comunità LGBT è ancora sottoposto. Ciò vale anche nella pubblicità, dove non viene mai rappresentata la normalità della vita di coppia, dell’amore: “Nel mondo stanno nascendo nuovi modi interessanti di raccontare prodotti – dice Francesca Fornario, giornalista di Radio 2 – ma che da noi non vengono ancora colti. In Italia, infatti, il 92.7% è telespettatore, il 74.9% di loro guarda la tv da 1 a 4 ore al giorno e il 51.9% la considera la prima fonte di informazione: sono numeri allarmanti se pensiamo che la pubblicità ha un enorme peso per la diffusione di sistemi di valori, di stili di vita, e di modelli; ancor più grave è che la pubblicità italiana continui a risentire di un immaginario visivo che si vede spesso nei casting di matrice Mediaset: non c’è una stereotipizzazione solo dell’universo LGBT, ma anche dei tipi femminili e dei tipi maschili tra cui non esistono donne con gli occhiali, non uomini pelati, e le donne over 55 portano solo dentiere e pannoloni. Questa cancellazione corrisponde a una cecità dei mass media nei confronti dell’universo multiforme dei consumi”.

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Da questo punto di vista, l’IKEA è stata un’eccezione: ha rappresentato una famiglia che, colta nella sua quotidianità, va a compare i mobili della famosa catena svedese: ciò che ha scatenato, nell’aprile 2011, le ire del sottosegretario Carlo Giovanardi è che la famiglia in questione era composta da due uomini. “Quella campagna – spiega Valerio Di Bussolo, direttore relazioni esterne IKEA Italia – era nata come lancio del punto vendita di Catania: questo succedeva a febbraio e nessuno disse niente; poi, a Pasqua, Giovanardi accusò IKEA di essere contro la Costituzione, fondata sulla famiglia”. Non manca nemmeno il riferimento al fattaccio Barilla: “Ricordo molto bene – dice Paola Concia, ex parlamentare PD – che, dopo la vicenda Barilla, molte aziende promossero pubblicità gayfriendly, opportunistiche e cretine. Insomma, delle stronzate. Purtroppo, dopo quelle dieci aziende che hanno fatto la pantomima per i primi mesi, oggi, a otto mesi di distanza, non si è più visto niente”. Qual è, dunque, la soluzione? “Dobbiamo smetterla di lamentarci – riprende la Concia – Se in America e in Germania il boicottaggio delle aziende è una cosa seria, a noi, virtuosi lamentosi da tastiera, manca l’attivismo”  effettivamente il rapporto tra aziende e target omosessuale, su cui sono stati fatti studi all’estero perché assai retributivo, rappresenta la relazione tra diritti civili ed economia: e IKEA è la dimostrazione che i diritti civili fanno bene all’economia.

Clara Amodeo

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Da Tagentopoli a Rimborsopoli: vent’anni di corruzione italiana. Don Ciotti: “Non basta indignarsi. Non siate cittadini ad intermittenza”

“La corruzione è un cancro che ci sta mangiando, che ci sta distruggendo. I poveri non vogliono beneficenza, vogliono lavoro, riscatto, dignità”. Questo il grido disperato di Don Luigi Ciotti, fondatore di Libera, dal palco della Sala dei Notari a Perugia. L’appuntamento è con Gian Antonio Stella, firma del Corriere, per la prima delle serate teatrali del Festival Internazionale del Giornalismo. Al centro dell’incontro un tema d’attualità: la corruzione. Da Manipulite, nel 1992, fino alla Rimborsopoli della regione Lazio, nel 2012. “Cosa è cambiato da allora? – si chiedono Don Ciotti e Stella – ma in Italia non c’è forse la sindrome della memoria corta?”. Un unico appello: “non voltatevi dall’altra parte” chiede Don Ciotti. Dati e cifre allarmanti che si intrecciano con la storia contemporanea italiana. E un caso su tutti: la terra dei Fuochi. “Della campania felix raccontata da Goethe non resta più nulla – dice Stella – oggi c’è la Campania di Carmine Schiavone, cugino di Sandokan”. La terra dei clan, non solo dei rifiuti, dove si annida, scavando sempre più in profondità, l’illegalità e un sistema di politica clientelare. Un ritratto sarcastico ma tagliente quello di Stella. 8 milioni le ecoballe che, nei calcoli del Corriere, stazionano a Taverna del Re, nel casertano. Se messe in fila si può coprire la distanza che “separa Napoli da Kabul passando per Lisbona” spiega il giornalista. Una terra dove c’è “una guerra per la vita, per la salute”, condotta da bambini già cresciuti per i loro coetanei morti di cancro e da “cittadini che non hanno ancora abbandonato la speranza”, come Don Patriciello a cui la sala dedica un caloroso e prolungato applauso.

Don Ciotti

Emergono situazioni imbarazzanti e dati allarmanti: diminuite e, in alcuni casi azzerate, le condanne per corruzione e concussione dal 1996 (post-Tangentopoli) al 2012. “Nessuna sentenza di condanna in Calabria, nel 2006” spiega Rizzo per una delle terre con il più alto tasso di corruzione. Pene che arrivano a distanza di decenni, e che per il 98% dei casi non prevedono più di due anni di detenzione. Giustizia a rilento e un’infinità di cavilli. Troppe leggi e altrettante scappatoie per un reato che ha soprattutto “ricadute sociali”. Un quadro tragico, che contribuisce ad aggravare una situazione di crisi economica con “9 milioni di persone in  situazione di povertà relativa e 5 milioni in povertà assoluta”. Senza dimenticare la piaga dell’analfabetismo e dell’analfabetismo di ritorno, con 6 milioni di italiani che hanno gravi difficoltà a leggere e scrivere. “C’è bisogno di una legge sulla corruzione chiara e trasparente” chiarisce Don Ciotti, a fronte dei 60 milioni di euro di evasione fiscale stimati dall’UE nel 2013. Perché la corruzione è una “piaga che va combattuta con la cultura, con l’educazione sì ma anche e, in primo luogo, con una legislazione seria” denuncia il fondatore di Libera. Nulla sembra essere cambiato, nei racconti di Stella e Don Ciotti, dall’estate di Tangentopoli, quando nel 1992 balzò agli onori delle cronache l’allora magistrato Antonio Di Pietro. Un eroe del momento, per un’Italia che “ciclicamente costruisce, assurge e magnifica ad eroi” personaggi di volta in volta diversi. Un tema, quello della corruzione, che “interessa anche la Chiesa” puntualizza Don Ciotti. Troppi punti oscuri: lo Ior, il riciclaggio negli anni ’90, in Vaticano, di soldi provenienti dagli affari delle organizzazioni criminali. Ma, su tutto, una speranza.  La condanna di Papa Francesco alla corruzione, definita “una puzza, un odore di putrefazione”. E le parole del Cardinale Carlo Maria Martini che, nel 1984, per primo denunciò “la corruzione bianca”.  “Le mafie sono forti quando la politica è debole” tuona Don Ciotti. “Il 96% degli italiani pensa che la corruzione sia dilagante in Italia” gli fa eco Stella, dati alla mano. Uno scenario agghiacciante  di fronte al quale non basta l’indignazione. “Non siate cittadini ad intermittenza – conclude Don Luigi Ciotti – siate cittadini sempre”.

Carmela Adinolfi

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Tra Cesare e Dio, Corrado Augias racconta la sfida di papa Francesco

Era il 13.3.2013 quando al neoeletto papa Bergolio fu chiesto quale nome volesse assumere da pontefice: rispose Francesco. Da lui, primo papa su 90 che, nella storia, si sono susseguiti al soglio pontificio a chiamarsi così, inizia la riflessione di Corrado Augias sul suo ultimo scritto “Tra Cesare e Dio”, presentato oggi nella Sala dei Notari. Un nome, quello del papa, che non proviene dalla storia dei Gesuiti, accusati di essere dotti troppo intellettuali lontani da quel Vangelo a cui, di contro, il francescanesimo, di cui Francesco è stato capostipite, insistentemente si richiama. La figura si presenta, dunque, complessa e, già dal nome, si annuncia foriera di molte novità: ripartazione della curia approfittando della mossa (“geniale”,a detta di Augias) di Ratzinger, risistemazione dello Ior, banca vaticana, apertura nel campo delicatissimo dei diritti della bioetica (nascita, morte, malattie, cure, unioni di fatto, omosessualità), in un impegno totale in quelle attività nietzschiane umane troppo umane. Tali aperture si sono tuttavia mostrate assai pericolose perché, nonostante la grande fama presso i popoli, Francesco sa di avere molti nemici nella Santa Sede: per questo, d’altro canto, per mantenere una parvenza di conservatorismo, le chiusure sono state tante e, tra queste, netta è stata l’opposizione al sacerdozio delle donne.

Augias

Ma quali conseguenze avrà questa attività avanzatissima di Bergoglio? Per Augias, il Governo non facile del nuovo pontefice deve tenere in grande considerazione il ruolo pubblico delle religioni cercando di astenersi dalle intromissioni volgari con la vita laica della Repubblica; i concordati del 1929 e del 1984, di Mussolini l’uno e di Craxi, ci hanno insegnato che la strada da non imbroccare è proprio quella, e tanto Bergoglio quanto Napolitano devono evitare il rischio dei ricorsi storici. Da questo punto di vista, forse, ha ragione Benedetto Croce nell’arrendersi all’evidenza che “abbiamo avuto troppe storie per poterle racchiudere in una storia sola” e di questa storia fa parte anche la storia della chiesa cattolica.

Clara Amodeo

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Giornalismo d’inchiesta e nuovi linguaggi: su Sky arriva Vice

“Giornalismo d’inchiesta e nuovi linguaggi” questo il titolo del panel dedicato alle ultime novità nel mondo dell’informazione, nell’ambito del Festival internazione del giornalismo, in corso dal 30 Maggio al 4 Aprile a Perugia. Carta stampata, web e video giornalismo per una realtà, come quella dell’inchiesta, “in continuo mutamento”. A confronto, fra gli altri, Bruno Manfellotto, direttore de L’Espresso e Sarah Varetto, direttrice di Sky Tg24. Una maratona su ritmi, formati e linguaggi che oggi “tirano” e “creano un circolo fra lettori e professionisti dell’informazione”. L’incontro è anche l’occasione per lanciare “Vice on Sky Tg24” la partnership fra SkyTg 24 e Vice, una piattaforma internazionale, presente in diversi paesi che ora sbarca in Italia proprio sul canale all news di Sky. Il ciclo di documentari andrà in onda su Sky dal  4 maggio, ogni domenica alle 23.00. Vice racconta “dal vivo uno spaccato di mondo – ha spiegato Eddy Moretti, responsabile Vice Media – con un inedito linguaggio documentaristico”. “Il racconto della realtà attraverso una nuova angolazione” con uno sguardo attento al registro di internet e del web. Non solo Vice. Espressione del giornalismo d’inchiesta, in Italia, L’Espresso, il settimanale diretto da Bruno Manfellotto. È proprio il direttore a raccontare gli inizi, l’integrazione fra la carta e il web, fino a ricordare il presente, con i reportage di Fabrizio Gatti.

Varetto

E poi la notizia: “Da maggio – annuncia Manfellotto – l’Espresso lancia una versione premium”, un paywall a pagamento sulla falsariga dei quotidiani d’oltreoceano come il New York Times. E Poi SkyTg 24, con le nuove modalità di racconto a confronto con il citizen journalism. “I nostri giornalisti hanno seguito un corso di formazione interno – ha detto la Varetto – ora vanno in giro da soli con una telecamerina”. Una redazione smart, un giornalista multitasking, iperconnesso. Non solo penna e taccuino ma intraprendenza e curiosità. Accanto al giornalismo in real time, il buon vecchio giornalismo d’eccellenza, dove conta anche “l’estetica del racconto”. È per questo che “SkyTG24 ha scelto Vice. Per la forza del linguaggio, per la capacità di rappresentare tutto ciò che è estremo nel mondo moderno, calandosi dentro realtà difficili da raccontare”. Al centro sempre il telespettatore, messo di fronte a reportage che “sono un pugno nello stomaco, che gli impediscono di girarsi dall’altra parte”.

Carmela Adinolfi

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Non solo “bamboccioni”: i giovani si raccontano nelle loro attività quotidiane.

Generazione orizzontale o verticale? Quanto, un giovane, sta sdraiato a letto a gozzovigliare e quanto, invece, sta in piedi, si rimbocca le maniche e cerca di trovare una svolta al proprio futuro? Se ne parla oggi, mercoledì 30 aprile, alla Sala dei Notari di fronte a una platea ricolma di adolescenti e assieme a relatori, giovani e non più: Lirio Abbate de l’Espresso, Mauro Casciari de Le Iene, Lella Mazzoli dell’Università di Urbino, Federico Taddia de L’Altra Europa Radio 24 e Francesca Ulici direttrice MTV NEWS. Sulla falsa riga del titolo dell’incontro, “Sdraiati a chi? La scuola e le nuove generazioni: chi le conosce, chi le capisce, chi le racconta”, si susseguono gli interventi di generazioni a confronto. MTV NEWS, per esempio, ha raccontato la storia di 650 ragazzi che, in tutta Italia, si sono fatti scoprire nelle loro vite sdraiate o in piedi (ma pur sempre quotidiane) fatte di disoccupazione e lavoro, viaggio e scuola: un modo “strepitoso”, come lo ha definito Abbate, di raccontare storie che non si trovano sui giornali. Tra i relatori lo “sdraiato medio” è Nicola Paciotti: non ama stare a letto, e forse nemmeno a scuola, ma alla scuola sta dando tanto: è infatti il rappresentante degli studenti all’Istituto Galileo Galilei di Perugia. Toccato nel vivo, tra i giornalisti della carta stampata e della televisione, sostiene che, spesso, i media non conoscono chi intervistano e per questo stereotipizzano il mondo dei giovani, distorcendolo e, in alcuni casi, travisandolo appieno.

Bamboccioni

Ed è proprio un giornalista, Casciari, a rispondergli: per il suo lavoro parla ai ventenni e dei ventenni, spiegando che, come team, “Cerchiamo di raccontare i ventenni ai ventenni come non lo farebbe un’altra tv generalista come Lucignolo o Screen Saver, in modo cioè in maniera sempre più vicino all’inedito”. Nessuna a poche distorsioni, dunque: ma quale, se non quello delle statistiche, è il metodo migliore per raccontare un gruppo, una società, un mondo? È quello che oggi fa Lella Mazzoli, presentando in anteprima per l’ijf2014 i dati che l’Università di Urbino ha raccolto nei primi mesi del 2014 nel focus sui giovani e l’informazione culturale: dopo avere interpellato 150 ragazzi tra i 20 e i 25 anni sul tema della stampa, ne è risultato che i giovani sono molto più attenti di quanto si possa pensare. Meno viste a emittenti tv e più visite a siti specializzati, per i giovani l’informazione è molto schierata e i giovani sono diffidenti verso l’informazione: “Forse che i giovani siano più critici?”, si chiede la Mazzoli. Ai posteri l’ardua sentenza.

Clara Amodeo

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Perugia, da Nicola Pisano a Corrado Augias

La strada è impervia, bisogna salire fino in cima, e con le valigie appresso è ancora più faticoso, ma la visuale dall’alto ripaga la fatica: Perugia, il piccolo borgo che diede in natali al Perugino e al Pinturicchio, è un gioiello medievale di tetti di cotto ed edifici storici dai camini fumanti. Ma è meglio non farsi ingannare: la città non è solo la sede della trecentesca università o della Fontana Maggiore di Nicola Pisano; la modernità serpeggia tra le vetrate dell’hotel Brufani, nelle sale dell’hotel San Gallo, tra i tavoli della sala dei congressi G. Alessi: quegli stessi edifici che, nei prossimi cinque giorni, ospiteranno l’avventura dell’International Journalism Festival 2014.

Questa edizione, l’ottava per la precisione, è davvero votata all’era 2.0: se non fosse stato per il crowdfounding promosso online dagli organizzatori, infatti, oggi non saremmo qui, a Perugia, a parlarne e, soprattutto, a parteciparvi. E invece la città rivendica con orgoglio il suo festival e, prima ancora di iniziarlo, lo urla alla cittadinanza: i manifesti sono affissi dappertutto, nei pressi del Museo Archeologico Nazionale dell’Umbria, ai piedi della chiesa di San Bevignate, sotto l’arco etrusco e le location in cui avverranno i maggiori eventi del Festival sono già pronti ad accogliere volontari, addetti stampa o semplici curiosi che, anche quest’anno, si riverseranno in migliaia ad ascoltare gli illustri relatori invitati.

Anche i volti che popolano il centro sembrano andare alla ricerca dei posti della kermesse: tanti giovani provenienti da tutto il mondo, con mappe alla mano e lo sguardo pronto a catturare una parola, un contatto, una nuova conoscenza. E io mi riconosco in loro: aspetto con ansia domani, quando potrò ascoltare Augias parlare di Dio e don Ciotti di manipulite.

Clara Amodeo

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L’ottava edizione del Festival del giornalismo di Perugia si è aperta con un dibattito tra i direttori del quotidiano britannico The Guardian, Alan Rusbridger, e della Repubblica, Ezio Mauro, su come si sta evolvendo lo scontro tra media e potere, ‘War on journalism’, in un’inedita anteprima romana che si è tenuta all’Auditorium Parco della Musica. “Dobbiamo impedire che la tecnologia sia impiegata nel modo sbagliato” ha osservato Rusbridger ricordando come ciò che gli ha fatto più piacere del premio Pulitzer ricevuto per il Datagate sia che è stato assegnato “per essere andati oltre il giornalismo, offrendo un servizio pubblico”.

“Il giornalismo serve per fornire i fatti in modo che ci sia un dibattito, altrimenti saremo sempre all’oscuro di quello che succede” ha aggiunto il direttore del Guardian. «Il potere ha oggi una capacità di egemonia culturale maggiore che in passato – ha riflettuto Mauro – e si esercita nella banalizzazione i temi, come è accaduto con il Datagate quando si diceva che era tutto già noto e che le spie erano sempre esistite. Il giornalismo invece deve dare un nome alle notizie, assumendosi la responsabilità di assegnare loro un peso. Dire: guarda che è di questo che si tratta».

Il festival del Giornalismo, ha ricordato Gianluca Comin, direttore delle relazioni esterne di Enel, porterà da oggi a Perugia più di 500 relatori da tutto il mondo.

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