Democratura ed altri malanni europei

Pubblicato il 13 Aprile 2015 alle 15:38 Autore: Livio Ricciardelli

Qualche settimana fa abbiamo analizzato come molto spesso, le ondate di populismo che coinvolgono l’Europa, siano in realtà un invito al “primato della politica” contro logiche prive di legittimazione o addirittura di mercato.

Sarebbe interessante però analizzare perché questo tipo di istanze si tramuta in adesione alla cosiddetta “democratura”. Un’espressione ormai in voga da qualche settimana (in primis grazie ad Eugenio Scalfari, ma anche Matteo Renzi ha contributo al successo dell’espressione) che però gradisco molto meno della definizione “democrazia formale”. Dove con “formale” si presuppone l’esistenza di una democrazia di facciata e dove nella sostanza avviene in realtà tutt’altro.

L’esempio massimo di “democratura” oggi è rappresentato dalla Federazione Russa. Si tratta in effetti di una modalità di governo che, grazie al populismo, prende forza producendo epigoni in giro per il mondo. Da qui anche un maggior interventismo da parte della diplomazia russa, desiderosa di sostenere i paesi dal sistema politico simile e le forze politiche d’occidente potenzialmente spine nel fianco all’interno delle democrazie “tradizionali” (un altro caso di democratura ancor più antica di quella russa è la Repubblica Islamica Iraniana, paese che non a caso finanzia come la Russia movimenti politici europei come gli spagnoli di Podemos).

Democratura, unico sbocco possibile per smarcarsi dalla democrazia

Ad oggi possiamo dire che la democratura è l’unico sbocco possibile per i paesi europei che intendono smarcarsi dalla democrazia classica. Insomma, Viktor Orban in Ungheria non potrebbe realizzare un sistema politico diverso da quello attualmente in vigore a Budapest. E questo in primis (altro paradosso, assieme al populismo legato alla volontà di dare il giusto peso alla politica) proprio grazie all’Unione Europea. L’integrazione comunitaria infatti ha evitato che i fenomeni degenerativi legati ai singoli stati nazionali potessero degenerare in sistemi ben peggiori da quelli della democrazia formale. E questo per un motivo ben preciso: se infatti consideriamo che il primo nucleo di integrazione europeo è la Comunità Economica del Carbone e dell’Acciaio, possiamo ben cogliere gli aspetti che possono spingerci a questa conclusione politica.

I padri fondatori dell’Europa ebbero l’intuizione di mettere come primo tassello di una futura integrazione continentale l’aspetto economico, quello più legato alla produzione bellica. Se i paesi mettono in comune carbone ed acciaio sarà più difficile che si scateni una guerra tra loro: i paesi contraenti del patto avrebbero tutte le ragioni per “chiudere i rubinetti” privando del paese bellicoso delle stesse risorse produttive capaci di consentirgli lo sforzo bellico.

Questa interdipendenza col passare dei decenni ha portato anche ad esiti sul fronte della politica interna dei singoli stati membri: se 28 paesi condividono principi, competenze e alcuni anche una moneta comune, il grado di autonomia per forza della cose tende a ridursi. Ad oggi, per fare un esempio bislacco, è impensabile la realizzazione di un golpe o di un colpo di stato in un paese dell’Europa a 28: il paese coinvolto verrebbe immediatamente isolato dagli altri 27 contraenti del patto, ci sarebbe un abbandono totale del singolo stato dal punto di vista economico, con tutto ciò che ne consegue per quanto riguarda la spirale dei prezzi e l’isolamento politico.

Finirebbe che il paese probabilmente arriverebbe a scalzare gli stessi golpisti (anche questo a suo modo è un paradosso) per cause assolutamente endogene! Sarebbe la stessa cittadinanza che renderebbe impossibile la riuscita di un’ardua operazione politica di questo tipo. In quanto, per quanto la crisi morda, i benefici che ci spingono a stare in una comunità politica come quella europea sono così integrati da rendere vana qualsiasi velleità alternativa. Di conseguenza l’unica “mossa politica originale” che si può portare avanti è quello di un governo legittimo, votato dai propri cittadini ma che attraverso le regolari norme costituzionali cambi lo stato dell’arte nei singoli stati membri. Compromettendo nella sostanza, ma nemmeno troppo nella forma, quei valori fondativi che hanno animato la nascita della comunità europea.

E qui l’ennesimo paradosso, secondo cui ad oggi (e citiamo sempre l’Ungheria come caso limite) un paese che non avrebbero le caratteristiche per essere ammesso dell’Unione, non può esserne espulso.

In un maquillage in qui il gatto si morde continuamente la cosa. Un altro grande classico della storia europea degli ultimi anni.

L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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