Regionali, guardando oltre il 5 a 2

Pubblicato il 1 Giugno 2015 alle 19:58 Autore: Gabriele Maestri
lente di ingrandimento e numeri

Alla fine, dunque, i numeri dicono 5 a 2. D’accordo, questo non si tocca. Ma altri numeri dicono (anche) altro e mai come in questo caso considerarne solo alcuni rischia di dare una lettura falsata del risultato delle regionali o, per lo meno, più favorevole – o meno sgradevole – agli occhi di chi fa la sua dichiarazione ai media. 

Io non voto, e tu?

Il primo dato non può che riguardare chi ha scelto di non giocare la partita ieri, vale a dire il 46,1% degli elettori, che nelle Marche e persino nella “rossissima” Toscana hanno superato il 50% (ma in Emilia Romagna, alla fine dell’anno scorso, l’affluenza era andata anche peggio, quando era andato a votare giusto un elettore su tre). Che qualcosa non vada è evidente, che i risultati usciti da questo turno abbiano un peso relativo è altrettanto chiaro: per qualcuno chi tace ha sempre torto, ma non può dirlo chi si trova a governare un territorio grazie a urne semivuote.

Sicuri che sia un 10 a 2?

Procedendo, torniamo per un attimo al 5 a 2, che peraltro qualcuno inserisce in un più ampio 10 a 2, considerando anche le regioni andate al voto da quando Renzi è segretario del Pd (prima erano 6 a 6). I numeri, per carità, sono reali, ma parziali. Perché è vero che, in questo anno e mezzo, il centrosinistra ha conquistato Calabria, Abruzzo e Piemonte (e ora pure la Campania), perdendo “solo” la Liguria e continuando a non guidare il Veneto.

In Piemonte però – non lo si dimentichi – si rischia un nuovo annullamento del voto per problemi di firme false (in casa Chiamparino) e la Campania presenta le note difficoltà giuridiche legate al “caso De Luca”; in ogni caso (oltre alla questione ligure, di cui si dirà dopo), non è saggio dimenticare che, delle tre regioni che avevano votato quando segretario era ancora Bersani, resta saldamente nelle mani del centrodestra (a trazione leghista) la Lombardia, il cui peso specifico è alto.

Chi vince, chi stravince (pochi) e chi mastica amaro

Se dal numero delle regioni si passa alle percentuali dei singoli candidati, il centrodestra può cantare vittoria in Veneto (Zaia è l’unico governatore a vincere con una lacrima in più del 50%) e in Liguria, sia pure con seri (e non indolori) cambiamenti all’interno della coalizione; se fosse arrivata la vittoria anche in Umbria, parsa a portata di mano, sarebbe stato un colpaccio, amplificato enormemente nell’ipotesi – non del tutto peregrina, visto lo scarto finale – in cui Caldoro in Campania avesse acchiappato la riconferma. Anche se il punteggio dice 2 a 5 (con una regione persa e un’altra conquistata), il centrodestra non può dirsi insoddisfatto: solo poco tempo fa in molti lo ritenevano in estinzione.

Il centrosinistra, per parte sua, può essere soddisfatto in Toscana (ma meno di cinque anni fa, visto che Rossi ha perso l’11% dei consensi e 400mila voti, quasi pari – ironia della sorte – al calo di elettori rispetto alle scorse regionali toscane), nelle Marche e in Puglia; tira invece un sospiro di sollievo in Campania e in Umbria, sia pure con amarezza in quest’ultima regione, considerata anch’essa storicamente “rossa” e vinta sul filo di lana, contro un candidato – Claudio Ricci – stimato al di là della sua coalizione. Fanno malissimo, invece, i risultati della Liguria e anche del Veneto: più di qualcuno non deve aver gradito la candidatura di Alessandra Moretti, votatissima alle europee solo un anno fa, quattordici mesi dopo la sua elezione a Montecitorio, ma autrice del risultato peggiore per il centrosinistra dal 1995 (con l’entrata in vigore dell’elezione diretta del presidente). Le va dato atto di essersi dimessa da europarlamentare a gennaio, ma la sua terza candidatura in tre anni potrebbe non avere indotto molti veneti a votarla.

Liguria: vittoria o sconfitta?

Il “caso Liguria” merita di essere analizzato con un po’ più di attenzione. La tentazione di dire che Giovanni Toti (e con lui il centrodestra) ha vinto può venire, ma va repressa subito. I numeri gli danno ragione, ma solo a causa della corsa di Luca Pastorino al di fuori della coalizione legata a Raffaella Paita. Pur essendo stato sostenuto da un centrodestra quasi al completo (a conti fatti, Enrico Musso gli ha sottratto 10.667 voti e la sua Liguria Libera 8.400, non pochi ma non proprio determinanti), Toti in Consiglio conterà su una maggioranza di soli 16 consiglieri su 31 (6 del listino, 9 della coalizione e lui stesso): salvo errore, è la prima volta che ciò accade da quando è in vigore il Tatarellum (per effetto combinato del “tetto” obbligatorio al numero dei consiglieri regionali, voluto da Monti) e potrebbe bastare qualche defezione per mettere in difficoltà la giunta che si formerà.

Quanto alla Paita, è difficile non considerarla l’unica vera sconfitta di questa competizione. Era prevedibile che lei per la mancata vittoria accusasse soprattutto Pastorino, leggendone la candidatura come un tradimento, un’infrazione alle regole delle – discusse – primarie (del resto Renzi e altri dirigenti del partito lo avevano già detto giorni fa). Non è questa la sede per dire se il candidato vicino a Civati abbia corso per far perdere la Paita e il Pd, così come si può discutere sulla correttezza di guidare una scissione e presentare una candidatura autonoma, ma una cosa va detta chiaramente: i quasi 62mila liguri che hanno votato Pastorino (quasi il doppio di quelli che hanno votato le sue liste) avrebbero potuto votare Pd e non l’hanno fatto. Si può accusare un avversario politico inatteso di slealtà, ma si deve pensare che chi lo ha votato lo abbia fatto scientemente, almeno quanto chi ha votato altrove: è improprio anche dire che, in assenza di Pastorino, quei voti sarebbero andati alla Paita, poiché quelle persone avrebbero semplicemente potuto disertare le urne, come ha fatto un ligure su due.

urna elettorale con scritta elezioni regionali di colore verde

Il domin(i)o dei partiti

Se dai candidati si passa ai partiti, è inevitabile vedere la flessione marcata del Pd, su cui tutti si sono intrattenuti: vale rispetto al famoso 40,82% delle europee 2014 (e potrebbe essere fisiologico, sia per la diversa scala delle consultazioni, sia – come direbbero i cattivi – per l’assenza di fenomeni analoghi al cd. “effetto 80 euro”), ma anche rispetto al turno precedente delle corrispondenti elezioni regionali. Qualche analisi dovrà essere fatta e probabilmente non basterà dare la colpa agli altri (men che meno, come si diceva, agli elettori). Intendiamoci: il voto non serve a cacciare Renzi da Palazzo Chigi, né gli si può dare questa lettura, ma il partito dominante del centrosinistra deve capire cosa ha indotto una parte consistente del suo elettorato a starsene a casa o a votare altrove.

La sinistra “alternativa”, per parte sua, non può sempre cantare vittoria: il modello “Altra”, varato alle Europee con un successo insperato – dopo tre risultati devastanti alle consultazioni nazionali di 2008, 2009 e 2013 – ha pagato raramente, con il 6,27% di Sì – Toscana a Sinistra e il 3,82% delle Altre Marche – Sinistra Unita. Rimane dunque un esperimento interessante, che però non è buono per tutte le realtà e tutte le stagioni.

Venendo al centrodestra, ora in modo certificato è la Lega Nord la prima punta: il partito di Salvini guadagna ovunque, potendo al più rimproverarsi la scelta non troppo felice di appoggiare Adriana Poli Bortone in Puglia, attraverso Noi con Salvini. In tutte le altre regioni, invece, il Carroccio è determinante – con il suo Alberto da Giussano – per il risultato del centrodestra unitario, oppure fa piazzare i propri candidati puntualmente avanti rispetto a quelli di Forza Italia. Al di là della Lega, solo Fratelli d’Italia può dirsi realmente soddisfatta e raccogliere i frutti (assieme a Salvini) di un’azione politica sostanzialmente coerente nel corso degli anni.

Quanto a Forza Italia, farà in tempo a godersi per poco la vittoria di Toti, dovendo subito fare i conti con il nuovo peso specifico superiore della Lega: Brunetta ha provato a mettere le mani avanti, aspettandosi da Salvini la stessa “generosità e lungimiranza” mostrata a suo tempo da Berlusconi (“Quando la Lega era una frazione di Forza Italia noi abbiamo dato alla Lega il Piemonte, la Lombardia e il Veneto; adesso Lega e Forza Italia sono più o meno alla pari, e allora io a Salvini chiedo prossimamente Piemonte, Lombardia e Veneto per avere lo stesso trattamento”), tradendo però la netta sensazione che quello stesso trattamento non arriverà. Certamente questo risultato ridà un po’ di ossigeno all’ex Cav, ma non abbastanza per consentirgli già da ora di combattere alla pari.

Tornata interlocutoria, invece, per il MoVimento 5 Stelle: poteva far saltare il banco in Liguria (ne aveva le forze) e invece si è fermato a dieci punti percentuali da Toti. Nelle varie regioni, tuttavia, di fatto non scende mai dal podio dei primi tre partiti (migliorando di molto i risultati di 5 anni fa) e può guardare con fiducia al suo futuro: ora che il nuovo sistema elettorale per le elezioni politiche non consente le coalizioni e premia la lista più votata, la possibilità di arrivare al secondo turno e vincere è alla portata. Anche perché, in politica, una forza solitaria come il M5S è la somma di se stessa, mentre un cartello di più forze è soggetto al postulato per cui due più due non fa mai quattro, ma tre e mezzo, quando va bene.

Bonus track: la follia dello spoglio fino all’alba

Da ultimo, sia consentita una riflessione tecnico-polemica: alle 9 di oggi, quando le urne erano chiuse da dieci ore, alcuni seggi risultavano ancora aperti o, per lo meno, non se ne conoscevano i risultati: in quali condizioni si sia svolto lo scrutinio, da parte di persone che hanno passato due terzi della notte in piedi – presidenti di seggio, scrutatori e anche rappresentanti di lista, in qualche caso tutto meno che inutili – è facile immaginare.

L’ideale sarebbe attuare i progetti di voto elettronico sperimentati per anni in Italia (eravamo all’avanguardia, pure sul piano della sicurezza) e che ora giacciono in qualche scrivania del Viminale. Non essendo un passaggio immediato, si spera almeno che, dal prossimo turno, si torni a votare solo fino alle 22 e non alle 23, per dare più lucidità a chi deve misurare l’esito elettorale. E, per favore, non si dica che così si sfavorisce l’affluenza e si penalizza chi torna tardi dalle gite: all’estero – specie nel Regno Unito – il voto è infrasettimanale e l’affluenza più rispettabile della nostra.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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