Vincere, ma non convincere: le Regionali 2015

Pubblicato il 2 Giugno 2015 alle 09:51 Autore: Livio Ricciardelli
regionali 2015

Vincere ma non convincere. E’ un po’ questa la chiave di lettura, croce e delizia di queste elezioni regionali 2015. Che comunque ci hanno regalato una certa dose di spettacolarità.

Il primo dato è uno e un solo: il 5 a 2. Fa un po’ malinconia in realtà leggere questo risultato. Perché la somma fa “solo” 7.

Cinque anni fa andarono al voto 13 regioni. Dieci anni fa 14. E dieci anni fu 12 a 2 per il centrosinistra, in una delle elezioni più bipolariste della storia. Poi l’Abruzzo cadde anticipatamente per le note vicende Del Turco, e si tornò a votare nell’autunno del 2008.

Le regionali del 2010 invece furono maledette: Lombardia, Piemonte, Basilicata, Lazio, Emilia-Romagna e Calabria furono costrette a chiudere la legislatura in anticipo. Con buona pace degli scandali, dell’antipolitica dilagante e del Titolo V della Costituzione.

Un quadro parziale dunque quello di questo 5 a 2. Ma che ci regala dei seri elementi di riflessione.

– Sistemi politici in via di definizione: in questi anni in Italia non c’è un sistema politico. Nel senso che è seriamente difficile capire chi sia l’alternativa al Pd di marca renziana. In questo senso le europee dello scorso anno furono paradigmatiche: oltre il presidente del consiglio, niente. Da qui le varie elucubrazioni sui partiti della nazione. Questo dato regionale però ci mostra un sistema che pur tra mille difficoltà mira ad un consolidamento se non ad una semplificazione. Due sono i dati che ci spingono a questo tipo di riflessione:

-I candidati dei 5 Stelle, che si piazzano in tutte e 7 le regioni tra i primi tre posti.

-Il buon risultato del centrodestra nelle uniche due regioni dove correva unito (Liguria e Umbria).

Uno schema sostanzialmente tripolare dunque è possibile. E con un grado di frammentarietà, ad oggi, ancor meno marcato rispetto a quello del ’94, per intenderci. Insomma, ad oggi il secondo posto per il ballottaggio dell’Italicum potrebbe essere alla portata di molti.

– Renzi tira, il Pd meno: gli esponenti del Pd in queste ore, notando un certo calo del partito rispetto alle elezioni europee per quanto concerne i dati percentuali, rivendicano i voti sottratti dalle liste civiche ai democratici. Si tratta di un’argomentazione sacrosanta, ma che assume i connotati della pericolosità se ripetuti costantenemtene e con enfasi auto giustificativa. Il dato è uno solo però: da sempre le liste civiche di centrosinistra tolgono voti al principale partito di centrosinistra o al partito di provenienza del candidato alla presidenza (esempio: la civica Bonino alle regionali 2010 non poteva che sottrarre più voti ai Radicali che al Pd). Ma nonostante ciò un calo del Partito rispetto alle europee dello scorso anno è evidente. Pur sommando (calcolo ottimistico) un dieci per cento in più al Pd in ogni singola regione, il partito perde voti consistentemente rispetto al maggio scorso. L’unico caso anomalo che ci sentiamo di sottolineare è quello di Michele Emiliano che ha portato avanti una linea non troppo dissimile a quella di Raffaele Lombardo alle elezioni comunali catanesi del 2005: più liste col suo nome e in suo sostegno. Non semplici civiche, ma veri e propri laboratori politici (Popolari per Emiliano su Tutti). Forse in questo caso si potrebbe sommare al Partito Democratico una percentuale superiore al 10%. Ma il dato politico è che il Pd attira se c’è Renzi in prima persona. Se si è costretti a votare intermediari (come i candidati alla presidenza) nel bel mezzo della giungla delle preferenza per il consiglio regionale, i consensi dem calano vistosamente.

Insomma: Renzi ok, il partito forse però andarebbe rivisto.

Casi singoli: Umbria, oltre gli ostacoli: qualche appunto infine su tre casi. Quello umbro in primis ci regala un grande insegnamento politico. Uno vecchio come le elezioni secondo cui “la tradizione col tempo diventa oppressione”. Una frase  pronunciata proprio nel corso di un’elezione in Umbria (le comunali a Terni nel ’96) dal capolista della lista civica “Ciaurro Sindaco” Arturo Diaconale. Quindi, o la sinistra si rinnova proprio per preservare il suo storico governo del territorio, o rischia. Il secondo insegnamento riguarda il centrodestra: non ha molto senso candidare i Mugnai di turno nelle regioni dove tendenzialmente sai di perdere. Ma occorre candidare degli “innovatori”, civici capaci di unire ed aggregare. Poi magari perdi, come Ricci. Ma almeno piazzi più consiglieri regionali…e fai tremare i tuoi avversari!

-E’ la Campania, bellezza. E tu non puoi farci niente: Il caso campano invece ci mostra un altro tipo di insegnamento: inanzitutto che il sistema politico è cambiato e quindi De Luca vince con meno voti di quello con cui perse cinque anni. In secondo luogo ci mostra come tutta la vicenda degli impresentabili e della lista redatta dalla Commissione Antimafia abbia danneggiato il centrosinistra più in nel nord Italia che nel sud. E’ la Campania, bellezza. E tu non puoi farci niente.

-I due volti del successo ligure: La vicenda ligure invece è un caso di successo e di insuccesso politico del tutto speculari tra loro. In primo luogo ha pagato la scelta di candidare un leader nazionale (e alieno dal contesto regionale) come Giovanni Toti come “garante” di una coalizione di centrodestra unitaria. Un caso non molto dissimile, ma ben più fortunato, dalla scelta dell’allora Casa delle Libertà di candidare Rocco Buttiglione alla carica di sindaco di Torino nel 2006, per frenare i contrasti.

In secondo luogo l’insuccesso di Raffaella Paita. I suoi consensi sono così bassi da andare oltre una mera sottrazione aritmetica col 9.4% di Luca Pastorino. Indipendentemente dallo scandalo delle primaire liguri, l’impressione è che si sia sbagliato il candidato. Forse a causa delle controversie amministrative sull’alluvione di Genova. O forse a causa di un personale politico che non ha saputo minimamente lanciare un messaggio di rinnovamento dopo dieci anni di governo Burlando.

Impressioni di un quadro in cui c’è un vincitore, ma gli opinion makers non se ne rendono conto. Forse perché abituati a “dati sballati”. O forse perché non seguono.

L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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