Il M5S al bivio: cambiare la prassi o la teoria?

Pubblicato il 7 Settembre 2016 alle 10:47 Autore: Gabriele Maestri
giunta raggi

Il M5S al bivio: cambiare la prassi o la teoria? Intervista all’esperto Riccardo DeLussu

Fare classifiche ha poco senso, ma è difficile negare che questi giorni siano tra i più delicati per il MoVimento 5 Stelle. La vittoria alle elezioni amministrative a Roma poteva essere una tappa importante di un percorso verso il governo del paese; al momento, però, si sta dimostrando soprattutto una fonte di problemi, fraintendimenti, scivoloni e informazioni che non circolano. Al di là della “questione romana”, però, è probabile che la creatura politica di Beppe Grillo sia chiamata innanzitutto a riflettere sul suo impianto teorico-politico, che più o meno consapevolmente è stato costruito nel corso degli anni.

Uno tra i primi a sostenere che alla base del M5S si potesse rintracciare una vera teoria politica, avente il suo referente in Rousseau, è stato Riccardo DeLussu, dottore in Teoria dello Stato all’università di Roma “La Sapienza” e autore, nel 2014, del libro La teoria del Grillo (editrice La Clessidra). Secondo lui, oggi il MoVimento è di fronte a un bivio, tra l’insistere sulla democrazia diretta (riprendendo però a praticarla), oppure ammettere che quell’esperimento non ha funzionato – o ha funzionato solo in parte – e assimilarsi agli altri partiti, cercando di dimostrare di saper agire meglio dei suo concorrenti politici. Di questo punto di svolta parliamo con lui, a partire ovviamente dal “caso Roma”.

Paola Muraro, Virginia Raggi, M5S, Roma

DeLussu, dal suo punto di osservazione, che sta succedendo nel MoVimento 5 Stelle e a Roma in particolare?

Dal mio punto di vista, quello della teoria politica, non posso dare una risposta su cosa stia succedendo. Posso dire che non capisco se ci sia un problema di coerenza tra l’ideale e la pratica o se sia invece cambiato l’ideale.

In che senso?

Per me il M5S era un esperimento di democrazia diretta via web, cioè un modo per dare a tutti i cittadini la possibilità di intervenire direttamente sul processo politico e le sue decisioni. Quest’ideale è solitamente associato al nome di Jan-Jacques Rousseau, cosa che fa anche il MoVimento, visto che ha chiamato “Rousseau” la sua piattaforma decisionale online, una piattaforma che ancora non sembra aver dato prova di “esistere”: è vero, lì si è discussa e si sta discutendo qualche proposta di legge, ma l’operato di quella piattaforma non si sta facendo percepire dalla massa. Alla stessa massa, invece, sta arrivando l’operato dell’amministrazione capitolina, che non mi dà la possibilità di vedere all’opera nulla che abbia a che fare con la democrazia diretta.

A quali episodi pensa?

Il primo che mi viene in mente riguarda la questione delle Olimpiadi. Quell’argomento si prestava benissimo a essere affrontato in sede di referendum: un vecchio attiVista, che ha seguito Beppe Grillo e il MoVimento 5 Stelle dalle origini, probabilmente si aspettava che un tema simile fosse sottoposto alla decisione degli aderenti al M5S. Si poteva fare una discussione online, per fare emergere i pro e i contro dell’ospitare i Giochi a Roma, per poi chiedere alla base di scegliere se organizzarli o meno. Questo ci si aspettava, invece la decisione non è stata ancora presa e, tra l’altro, non si sa chi la stia prendendo: a volte pare lo faccia la sindaca, a volte il direttorio; si sa che Di Battista ha detto che le Olimpiadi non si fanno, mentre qualcuno all’interno del MoVimento romano le vuole. Le pare che tutto questo abbia qualcosa a che fare con la democrazia diretta?

teoria del grillo m5s

Nel suo libro La teoria del Grillo, un capitolo è intitolato “La correttezza dell’informazione”: è riferito ai mass media, ma il concetto potrebbe applicarsi anche alla circolazione di informazioni all’interno del MoVimento, tra gli eletti e gli attivisti. Questo può essere considerato un nuovo punto nevralgico?

Sembra un punto nevralgico su una questione che solo apparentemente è slegata, quella della comunicazione sui dati giudiziari, cioè il caso che riguarda ora l’assessora Muraro a Roma. Se diciamo che c’è un obbligo di informazione o di trasparenza, allora si può dire che qualunque cosa accada su quel fronte dev’essere condivisa, dovendo informare tutti: sembra quasi che l’obbligo dell’informazione significhi questo. Nel libro, in realtà, affrontavo la questione da un altro punto di vista: parlavo di informazione corretta nel senso di oggettiva, per cui non è tanto importante chi parla ma cosa dice. Un caso che può esemplificare bene questo concetto è sempre quello delle Olimpiadi: non parlare per slogan, ma fare una discussione il più possibile obiettiva su costi e benefici. Mi pare invece che ora la questione dell’informazione sia appunto rivolta soprattutto all’interno del M5S, con certi dati che vanno comunicati tra gli eletti e i “dirigenti”. In tal senso, un’altra applicazione della trasparenza potrebbe comportare il dover far luce su chi ha deciso i membri del Direttorio (nazionale o romano) e in base a quali criteri: se dobbiamo parlare di informazione a 360 gradi, dobbiamo porci anche queste domande.

Quindi per lei non è solo un problema di circolazione delle informazioni, ma anche di procedure decisionali?

Sì, perché, sempre in base all’ideale originario del MoVimento, le decisioni le prende sempre la base. L’informazione, dunque, è semplicemente uno strumento che permette alla base di prendere una decisione corretta. Nel caso, per esempio, dell’assessora Muraro, la base poteva comunque scegliere lei come persona più adatta e competente per affrontare certi problemi, anche sapendo che lei risultava indagata. Non ci sarebbe stato alcun problema: la democrazia, in fondo, è permettere alla base di decidere una volta che abbia avuto tutte le informazioni necessarie. Vale tanto per la scelta e la definizione di un programma, quanto per la nomina di un assessore. A Roma, invece, stanno emergendo altre criticità: è il caso del nuovo assessore al bilancio, che pare sia stato scelto “per chiamata diretta”, qualcosa che è quasi incompatibile con la democrazia diretta.

Nel senso che il problema non è tanto chi avrebbe facilitato la scelta, ciò di cui parlano i media, ma come la scelta è stata fatta?

Quelle notizie potrebbero anche non essere del tutto vere, ma sicuramente non c’è stata una scelta della base. Siamo sempre lì, la domanda principale è: che differenza c’è oggi tra il M5S e un altro partito? L’ideale originario diceva che le decisioni le prendeva la base e ora non è così, chiunque le stia prendendo.

C’è un momento particolare in cui, secondo lei, le decisioni ha smesso di prenderle la base?

Ovviamente all’inizio varie decisioni le ha prese davvero la base, pensi alle Parlamentarie: lo schema di funzionamento era quello. Poi, molto probabilmente, una volta arrivati in Parlamento ci si è resi conto che era difficile far funzionare quel meccanismo: se però si è deciso di abbandonarlo, bisognerebbe dirlo.

m5s, pizzarotti, sospeso, parma

Sarebbe dunque essenzialmente una questione di “dimensioni”, di “scala” degli approdi che il MoVimento ha via via raggiunto?

Sicuramente fare opposizione è più semplice rispetto al governare, c’entra sicuramente anche questo. Il M5S, però, dovrebbe davvero interrogarsi sulla sua ragione d’essere nella politica italiana. Dovrebbe spiegare, altrimenti, perché alcuni comportamenti del sindaco di Parma – ad esempio – sono stati giudicati incompatibili con lo spirito del MoVimento (penso ad esempio alla scelta sull’inceneritore), quando mi paiono molto simili a quelli che stanno caratterizzando l’esperienza romana e, per certi versi, torinese.

Come mai parla anche di Torino?

Nemmeno a Torino, per dire, mi pare che sia la base a governare la città: la sta governando la sindaca, probabilmente la sta governando bene, ma dal punto di vista della teoria politica – ciò di cui io mi occupo – mi devo chiedere che differenza ci sia tra il MoVimento 5 Stelle e qualunque altro partito.

In sostanza per lei ci sono stati trattamenti differenziati e poco giustificati?

Ripeto: bisogna scegliere. Credo che il M5S sia davanti a un bivio: o si trasforma in un partito come un altro, e allora qualsiasi sindaco ha diritto di fare ciò che ritiene giusto per la città (proprio come il nostro sistema istituzionale richiede a ogni primo cittadino eletto), oppure insiste sull’esperienza della democrazia diretta. Non dimentichiamo che ciò che ha fatto parlare anche all’estero del MoVimento era proprio l’esperimento della democrazia diretta via web: si è sempre pensato che la democrazia diretta fosse impossibile da realizzare, poi è arrivato qualcuno che sosteneva che con le tecnologie informatiche era possibile provarci. Se su questo il M5S ha cambiato idea va bene, ma allora tutti i sindaci diventano uguali: ciascuno si prende la propria responsabilità e autonomia sulle cose da fare e alla fine risponderanno agli elettori, non agli attiVisti.

Se fosse così, il MoVimento come potrebbe rendere questo cambiamento di idea più giustificabile, agli occhi di chi lo sostiene, magari dicendo che “così non si poteva andare avanti”?

Beh, dire questo significherebbe confermare quello che si è sempre detto sull’impossibilità di realizzare la democrazia diretta. Come lo si può giustificare? Dicendo che “noi siamo migliori degli altri”: questo mi pare l’unico modo per far accettare questo cambio di prospettiva. Certo, non lo si può soltanto dire, lo si deve anche dimostrare: questo, ovvio, è ancora presto per vederlo. Se tra cinque anni i sindaci di Roma e Torino godranno di popolarità crescente per avere risolto gran parte dei problemi, vorrà dire che hanno avuto ragione loro. L’istituto della democrazia diretta ti obbliga a rispondere ai tuoi sostenitori in ogni momento; la democrazia rappresentativa prevista dal nostro ordinamento, invece, ti permette di aspettare la scadenza del tuo mandato prima di rispondere agli elettori. Nel primo caso sei sempre sotto il controllo dei tuoi simpatizzanti, a loro devi il tuo incarico e a loro devi rispondere; nel secondo il controllo si esercita comunque, ma è rimandato al successivo momento elettorale e se l’operato sarà stato buono la gente potrà riconfermarti.

Da un lato, dunque, bisogna ammettere che non si può utilizzare la democrazia diretta, dall’altro bisogna dimostrare di essere meglio degli altri. Giusto?

Sulla democrazia diretta, magari non c’è bisogno di dire che è impraticabile. Si potrebbe anche solo ammettere che l’idea originaria va riformulata, per cui ad esempio la si applica alla scrittura delle leggi, ma non anche al governo delle città: Rousseau potrebbe essere utilizzato per discutere e formare i testi delle proposte da discutere in Parlamento, ma non per condividere le decisioni che un sindaco ogni giorno deve prendere come amministratore. Credo che il MoVimento dovrebbe interrogarsi su se stesso, sui suoi aspetti teorici: mi sembra che molte cose non siano mai state discusse o chiarite, che si stia improvvisando un po’; dopo il chiarimento, il M5S andrà avanti e giocherà la sua battaglia politica per ottenere il consenso degli italiani. Anche la questione relativa alla composizione di una giunta e ai componenti degli staff, per dire, rientra nella logica di cui parlavo: se l’opzione è ancora per la democrazia diretta, si potrebbe chiedere agli aspiranti candidati sindaci di dichiarare fin dall’inizio i componenti dell’eventuale giunta e del personale fiduciario, indicando anche preventivamente gli stipendi da accordare, così che gli aderenti al MoVimento possano decidere in modo consapevole; se invece si adotta un altro modello, ogni sindaco è autonomo e responsabile nella scelta di chi lavora con lui.

rousseau m5s

In queste settimane, il M5S è oggetto di accuse pesanti da parte spesso delle stesse forze politiche che in passato non avevano avuto condotte politiche migliori. Con che spirito il MoVimento dovrebbe approcciarsi a questi attacchi?

Dovrebbe probabilmente trarre un insegnamento: certi atteggiamenti giustizialisti sono comunque sbagliati. Anche su questo il MoVimento deve interrogarsi su se stesso: quanto sta accadendo a Roma è un esempio di come l’adozione alla lettera di certe posizioni “integraliste” renda impossibile l’attività politica. Chiunque abbia a che fare oggi con l’amministrazione di una città rischia di vedersi puntare addosso i fari di una Procura; se rendiamo automatiche le dimissioni, non avremo più una classe politica. L’ordinamento italiano continua a prevedere la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva: rispettare la legge significa tenere conto anche di questo, pretendere le dimissioni di chi ha ricevuto un avviso di garanzia significa andare contro alla Costituzione e alle leggi.

Alla fine del libro, domandandosi se rimarrà il divieto di andare oltre il secondo mandato elettivo, lei ha scritto “l’unica cosa certa è che non ci sono certezze”: vale anche, in generale, per il futuro del MoVimento?

Penso proprio di sì: molto, per quanto riguarda il M5S, è o sembra ancora indefinito. Per riprendere l’esempio della sua domanda, penso che prima o poi si porrà il problema di poter derogare al limite del doppio mandato e, nel caso, a chi riservare queste deroghe, a quali condizioni. Mi pare difficile che questa classe politica, che si è appena affacciata alla scena pubblica ed è di fatto ancora in rodaggio, sia costretta a tornare a casa nel momento in cui ha imparato a fare qualcosa. Continuo a pensare che, anche in questo caso, dovrebbe essere la base a decidere: se un eletto ha alle spalle due legislature o consiliature e ha dimostrato capacità, perché mai gli attiVisti non potrebbero scegliere di dargli una terza possibilità?

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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