Politica: Italicum, riprende la battaglia in tribunale

Pubblicato il 14 Marzo 2017 alle 19:43 Autore: Gabriele Maestri
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Politica: Italicum, riprende la battaglia in tribunale

L’Italicum? Colpito, sì, ma non ancora affondato. Non è ancora chiaro se e come il Parlamento vorrà modificare le norme elettorali rimaste in vigore. In compenso, c’è chi chiede che sia smantellato pure ciò che la Corte costituzionale aveva lasciato in piedi ed è pronto a lottare. Qualcuno aspetta che i tribunali si pronuncino sui ricorsi presentati contro l’Italicum mesi fa e non ancora decisi. Altri, come a Messina, ripresentano alcuni dei motivi fin qui non considerati. Rivisti alla luce della sentenza n. 35/2017.

Politica: Italicum, riprende la battaglia in tribunale

La Consulta, infatti, tra gennaio e febbraio, ha dichiarato l’incostituzionalità di alcuni punti della legge n. 52/2015. In particolare, il ballottaggio e l’opzione esercitabile da parte dei candidati eletti in più circoscrizioni in seguito alle multicandidature. Essa ha tuttavia lasciato in piedi il resto dell’impianto della legge elettorale per la Camera. A partire dal premio di maggioranza che scatterebbe per la lista che raggiungesse il 40% e dalla possibilità per i capilista “bloccati” di essere candidati in più circoscrizioni.

La sentenza, in ogni caso, non ha interrotto i procedimenti iniziati davanti a tanti tribunali, sotto il coordinamento dell’avvocato ed ex parlamentare Felice Besostri, nella speranza che i giudici via via interessati sollevassero questioni di legittimità costituzionale davanti alla Corte.

In più di un caso, come a Venezia, i processi erano sospesi in attesa del pronunciamento del giudice delle leggi. Altrove il procedimento continua e in qualche caso, come a Bari, dopo l’udienza della scorsa settimana, si aspetta una decisione, basata anche sulla sentenza della Consulta.

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Politica: a Messina riparte l’attacco all’Italicum

Particolare attenzione merita il caso di Messina. Quel tribunale era stato il primo a rivolgersi alla Corte costituzionale, interpellandola su cinque profili di possibile illegittimità. La Corte, però, non ne ha accolto nessuno.

In particolare, essa aveva considerato infondati i dubbi sulla violazione della rappresentanza territoriale e sui capilista bloccati. Aveva ritenuto, invece, inammissibili le questioni sull’effetto combinato tra premio di maggioranzasoglia di accesso per le liste minoritarie; sulle candidature multiple dei capilista; nonché sulla permanenza delle clausole di sbarramento nella legge elettorale del Senato e sulla disomogeneità delle regole tra Senato e Camera.

Cinque giorni fa, con un nuovo ricorso, l’avvocato Enzo Palumbo – assieme agli altri dieci ricorrenti – ha riassunto il processo iniziato alla fine di novembre 2015. Scopo principale è ottenere, anche alla luce di quanto deciso dalla Corte , una sentenza che dichiari la lesione dei diritti elettorali dei ricorrenti. Una richiesta necessaria; senza, la Consulta si sarebbe rifiutata di valutare la costituzionalità dell’Italicum.

Allo stesso tempo, però, sono stati riportati all’attenzione dei giudici ben cinque profili di illegittimità costituzionale della stessa legge elettorale: questi erano stati considerati manifestamente infondati dai magistrati messinesi – su presupposti sbagliati, secondo i ricorrenti – oppure ritenuti inammissibili dalla Corte. Questi, a differenza di quelli respinti come infondati, possono essere riproposti anche dallo stesso giudice, purché rimuova il vizio che aveva portato alla valutazione di inammissibilità.

Politica: la critica sul procedimento

Per prima cosa è stato riproposto al tribunale di Messina un dubbio preliminare, sul procedimento di modifica della legge elettorale. Quel disegno di legge non avrebbe rispettato la “procedura normale di esame e approvazione diretta” prescritta dall’articolo 72, comma 4 della Costituzione per le leggi in materia elettorale.

In particolare, il d.d.l. era arrivato in aula al Senato senza che fosse completata la discussione in Commissione e senza la relazione. L’iter, poi, sarebbe stato alterato dalla presentazione, da parte del senatore Pd Stefano Esposito, del noto emendamento premissivo (il “Supercanguro“): esso preponeva al testo di legge i tratti fondamentali del nuovo sistema elettorale (modificati in base a un accordo di maggioranza), per far saltare tutti gli emendamenti di segno diverso. Un espediente efficace, ma ritenuto “inusuale” dal Comitato per la legislazione.

A Montecitorio, poi, il testo era di nuovo approdato in aula senza relazione e dopo la sostituzione di dieci deputati Pd dissenzienti. Tre articoli erano stati approvati con voto di fiducia (cosa che, analizzando le prassi parlamentari, non consentirebbe più di parlare di “procedura normale” secondo Costituzione). Quella fiducia, poi, secondo i ricorrenti, non doveva essere ammessa: le opposizioni avevano chiesto di votare a scrutinio segreto.

Molte di queste censure erano state avanzate da Palumbo e dagli altri dopo il primo ricorso. Il tribunale di Messina le aveva liquidate in poche righe, senza argomentare. Per far intervenire la Corte costituzionale sul punto, la difesa aveva provato a chiederle di sollevare la questione davanti a se stessa. Ma il giudice delle leggi ha negato di poter ampliare l’oggetto della discussione rispetto alle questioni sollevate dai giudici rimettenti. I ricorrenti, ritenendo che all’inizio le loro ragioni non siano state considerate in pieno, riprovano ora a sollecitare il tribunale: sperano che stavolta investa la Consulta della valutazione sul procedimento legislativo.

Politica: le altre questioni

Tra le questioni sollevate dal tribunale di Messina che la Corte aveva considerato inammissibili, ne sono state riproposte quattro. La prima riguarda la compresenza del premio di maggioranza (per la lista che all’ormai unico turno superi il 40%) e della soglia di accesso del 3%. Operando insieme altererebbero in modo eccessivo la rappresentanza democratica: in base ai voti validi delle elezioni del 2013, resterebbe fuori dal parlamento anche una forza che avesse ottenuto circa 900mila voti. Distorsione che si aggraverebbe ove vi fosse più di una lista in quelle condizioni.

La seconda questione, relativa alle candidature multiple dei capilista, riguarda il diverso e irragionevole trattamento rispetto agli altri candidati; che possono essere candidati una sola volta. I ricorrenti propongono di eliminare la disparità consentendo o (meglio) vietando a tutti la multicandidatura.

L’occasione, tra l’altro, è buona per censurare la soluzione del sorteggio, individuata dalla Corte per evitare che siano i partiti a decidere chi va in Parlamento. Questa non risolverebbe “il problema dei candidati potenzialmente subentranti“: l’estrazione a sorte potrebbe non premiare coloro che hanno ottenuto più preferenze; in più, il sistema non appare “un buon metodo di selezione democratica per individuare chi avrà il compito di rappresentare il popolo in ragione del suffragio elettorale ricevuto, e non già del capriccio della fortuna”.

Politica: sistemi disomogenei?

Per quanto riguarda invece la legge elettorale di risulta (cd. Consultellum) per il Senato, sotto accusa finiscono nuovamente le soglie di sbarramento per l’ingresso a Palazzo Madama; previste a livello regionale (8% per le liste non coalizzate, 3% per quelle coalizzate, 20% per le coalizioni) e ben diverse dall’unica clausola del 3% prevista alla Camera.

La loro persistenza sarebbe irragionevole di per sé, visto il minor numero dei senatori e la più ridotta porzione territoriale cui le percentuali si riferiscono. In ogni caso, favorirebbe la creazione di maggioranze diverse nei due rami del Parlamento e renderebbe illogicamente più difficile essere rappresentati in Senato, rendendo il voto “meno uguale“.

L’ultimo profilo riguarda la generale disomogeneità delle discipline elettorali di Camera e Senato, rimasta dopo la mancata entrata in vigore della riforma costituzionale. Il diverso impianto delle leggi – proporzionale e con le coalizioni al Senato, potenzialmente maggioritario (in caso di funzionamento del premio) e improntato su liste e “listoni” alla Camera – ostacolerebbe seriamente la formazione di maggioranze omogenee; principio che per la Corte dev’essere tenuto ben fermo.

La soluzione proposta suggerisce di cassare ciò che resta dell’Italicum, facendo rivivere il Consultellum anche per la Camera. Si avrebbe “un sistema elettorale d’impianto proporzionale,  certamente costituzionale e sufficientemente omogeneo”, pronto a funzionare anche ove “il Parlamento non riuscisse ad approvare una nuova legge elettorale”.

Frase, quest’ultima, che rivela come anche per i ricorrenti le possibilità di un accordo sulle nuove regole per le elezioni siano assai ridotte. Con tutti i problemi che questo comporterebbe.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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