“Rummy”, la Nuova e Vecchia Europa e quella partita per Mr. Pesc

Pubblicato il 20 Luglio 2014 alle 11:03 Autore: Livio Ricciardelli

Donald Rumsfeld, come ben sanno gli appassionati di politica Usa, detiene due record: è stato il segretario alla difesa più giovane della storia degli Stati Uniti ed al tempo stesso il più vecchio nominato a quell’incarico.

Nel 1974 non correva del buon vento dalle parti del Potomac: il presidente Nixon si trovava nel bel mezzo di uno scandalo di spionaggio che avrebbe cambiato per sempre la storia della più potente democrazia del pianeta. Mentre il quacchero “Dick” pregava assieme a Henry Kissinger (bavarese d’origine ebraica) per superare questo particolare momento, il vicepresidente Gerald Ford si scaldava in qualche corridoio della West Wing.

Ford era figlio di quel Michigan industriale che non aveva mai rinunciato al proprio sostegno al Gop, e rivestirà il controverso ruolo di primo e per adesso unico Presidente degli Stati Uniti mai eletto dal popolo ne per quanto riguarda l’incarico di Presidente (perse contro Carter nel ’76) ne per quanto riguarda la vicepresidenza che aveva visto Spiro Agnew (un signorotto greco dalla parlantina efficace) accompagnare Nixon nella gestione della Casa Bianca fino a quando uno strano scandalo giudiziario lo mise fuori dai giochi.

Nelle stanze della White House in quei strani giorni di incertezza e novità, si aggiravano due ragazzotti dall’area un po’ sbruffona: il primo era un tale di Cheyenne, Wyoming, lo stato meno popoloso e forse meno entusiasmante dell’universo americano. Si chiamava Dick Cheney.

Dick sin da giovane aveva incominciato a frequentare le riunioni dei repubblicani del suo stato diventando uno dei punti di riferimento di quell’universo conservatore fatto di allevamenti, cowboy e varia umanità. L’altro ragazzotto era proprio lui: Donald Rumsfeld.

“Rummy”, per gli amici, ricopriva l’incarico di capo gabinetto del Presidente e Cheney era il suo vice. I due non sapevano che si sarebbe trovato molti anni dopo a condividere Pentagono e Vicepresidenza in tutt’altra stagione politica. Dopo le dimissioni di Nixon il neopresidente Ford chiamò “Rummy”, che già aveva incominciato ad elaborare le sue teorie sulle “politiche della difesa applicate allo sviluppo tecnologico”, e gli disse “Donald, dimmi pure quello che vuoi: ma tu sei il mio prossimo segretario alla difesa. Ah, e dì a quell’altri ragazzo, Dick, che ti sostituisca alla carica di capo gabinetto”. Due promozioni in un colpo solo. Nessuno come loro ha tratto vantaggio politico dall’indecorosa fine di Richard Nixon. Nessuno sapeva che da quel semplice atto sarebbe nato il neoconservatorismo, quello spirito ingiustamente fermato ad un passo dalla meta nell’emblematica sfida Johnson vs Goldwater delle presidenziali ’64.

Donald Rumsfeld (a cui il grande Errol Morris ha dedicato l’anno scorso un bel documentario) coniò il termine “Vecchia e Nuova Europa” nel 2002 alla vigilia della seconda guerra del Golfo. Con “Vecchia Europa” Rumsfeld si riferiva al nucleo originario dell’integrazione comunitaria. In primis Francia, Germania, ma anche il Belgio. Paesi che rifiutavano qualsiasi tentativo unilaterale di cacciare Saddam da Baghdad. Per “Nuova Europa” invece si riferiva sia allo spirito delle Azzorre (quando Barroso, Aznar, Blair e Berlusconi dichiararono la loro fedeltà all’alleato americano) sia a quei paesi dell’Europa dell’est che vedevano nell’ingresso della Nato (altro che i palazzi di Bruxelles) la propria ragione costituiva dopo anni di dittatura di marca sovietica. Questo fronte fu il primo a schierarsi per l’invasione dell’Iraq in un gioco di contrappassi dal sapore beffardo.

Le resistenze sulla nomina di Federica Mogherini come ministro degli esteri europeo si rifanno a questo tipo di divisione: non è un tema di “favorevoli o contrari alla Russia”, ma una separazione tra paesi dell’est (che magari mirano ad essere rappresentati nelle istituzioni europee) e il nucleo centrale dell’Europa che vede l’Italia tra i primi paesi ad aver edificato tutta la complessa architettura comunitaria. Il ministro degli esteri italiani è andato sia a Kiev sia a Mosca, e il re del cioccolato Poroshenko ha già firmato il suo trattato di associazione con l’Ue. Ma due impostazioni di Europa, vecchia e nuova, tornano alla ribalta. Con i paesi dell’est che non suolo rivendicano la leadership degli “esterni all’Eurozona”, ma anche una diversa visione della struttura comunitaria. Sempre più intergovernativa e meno comunitaria (come vorrebbe Renzi, tra gli altri).

La domanda è d’obbligo: ma la temibile Russia ha più paura di un colosso composto da 28 stati e mezzo miliardo di cittadini o di Polonia, Estonia e Lituania in ordine sparso? La risposta la ricavate da soli. “Rummy” non avrebbe avuto dubbi in proposito.

 

L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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