Marvin Barnes: tra bad news e macchine del tempo

Pubblicato il 20 Agosto 2014 alle 16:36 Autore: Marco Minozzi

Providence, capitale dello stato del Rhode Island, venne chiamata così dal suo fondatore, Roger Williams, in onore della Provvidenza divina che lo aveva condotto, secondo lui, in quella terra dopo che i puritani del Massachusetts lo avevano scacciato. Materiale sicuramente interessante per una bella storia, ma quella che vogliamo raccontare oggi inizia parecchio tempo dopo, precisamente il 27 luglio 1952, quando vede per la prima volta la luce Marvin Jerome Barnes, frugoletto nero che presto diventerà una poderosa ala forte di 2 metri e 03 per 95 chili. Non è una storia facile da raccontare quella di Marvin, perché prima che la pallacanestro entri nella sua vita ci sono anni di violenze e percosse di un padre ubriaco, cattive compagnie e la voglia, come disse lui stesso in una toccante intervista “di vivere in fretta e morire presto, magari in una sparatoria. Non pensavo che sarei arrivato a trent’anni. Non era una mia ambizione.”

La pallacanestro invece arriva, e in qualche modo restituisce un senso a quella vita sull’orlo del baratro. Barnes in campo è qualcosa di quasi illegale, tanto che la sua High School vince per due anni consecutivi il titolo dello stato senza perdere nemmeno una partita. Il vizio delle brutte compagnie però è duro a morire, e così capita che nel suo anno da senior decida di cimentarsi, insieme a qualche altro compare, nel tentativo di furto di un autobus (bravata per bravata, tanto vale che la facciamo grossa eh Marv?) salvo essere identificato e arrestato in tempo zero e con discreta facilità poichè indossava il giubbotto di campione dello stato con il suo nome in bella evidenza cucito dietro. Geniale.

Marvin Barnes

La bravata non scoraggia gli scout NCAA, specialmente quelli locali, e Providence College si assicura i suoi servigi per il quadriennio dal ’71 al ’74. In campo Barnes sale ulteriormente di livello, conducendo la sua squadra ad una storica final four nel 1973, ritoccando tutti i primati individuali dell’ateneo in singola gara per punti (52) rimbalzi (34) e stoppate (12). Realizza anche il record di canestri realizzati dal campo in una partita di play off senza errori con un clamoroso 10/10 che sarà superato solo, qualche anno dopo, dall’11/11 di Kenny “Sky” Walker di Kentucky. Nell’ultimo anno, per condire il tutto, guida la classifica nazionale dei migliori rimbalzisti. Fuori dal campo però non è purtroppo da meno. Tra le varie stupidaggini la peggiore è quella del 1972, quando decide di risolvere la disputa col compagno di squadra Larry Ketvirtis usando come arma di persuasione il cric della macchina, argomentandolo direttamente sulla faccia al rivale. Scatta la denuncia, si va per le lunghe e intanto Marvin, che si professa innocente, continua la sua carriera universitaria coi numeri di cui sopra. Al momento di uscire dal college poi, arriva la scelta più complicata. In quel periodo infatti, sono due le principali leghe professionistiche che si contendono i giovani talenti: la NBA e la ABA. Evidentemente la nomea che il ragazzo si sta costruendo fuori dal campo non spaventa minimamente le franchigie del piano di sopra, a conferma del detto che “un serial killer con 15 punti nelle mani, un posto in NBA lo trova sempre.” È così. Lo scelgono i Philadelphia ’76rs con la seconda chiamata assoluta, ma Marvin preferisce i due milioni di motivi che gli offrono i St. Louis Spirits dell’altra lega.

Marvin Barnes

Sono i suoi anni migliori. Entra dominando letteralmente la scena con 24 punti a partita, 15,6 rimbalzi, 3,2 assist e 1,8 stoppate. Rookie dell’anno a mani basse. Il secondo anno mantiene la stessa media punti e cala di poco le altre cifre. In campo è incostante, indolente, capace di giocate che ti fanno saltare sulla sedia e poi di sparizioni tecniche inspiegabili. Viaggia su una Rolls Royce per farsi notare anche tra i suoi colleghi. Una sera perde l’aereo che lo dovrebbe portare con la squadra a Norfolk per la partita. Ne perde anche altri ed è costretto a noleggiarne uno per arrivare in tempo. Si presenta in spogliatoio, durante il discorso del coach, con cappotto di visone sopra la divisa della squadra, sacchetto di patatine da una parte e big mac dall’altra. Resta in panchina per i primi minuti della gara, poi entra e chiude con 51 punti e 19 rimbalzi. Passate pure i prossimi trenta secondi a rileggerlo, se volete. La perla più bella però, e forse anche la più famosa, la regala al momento di doversi trasferire con un volo da Louisville a St. Louis. Il “problema” è che con i fusi orari diversi, l’aereo dovrebbe atterrare circa un’ora prima di quando è partito. Il suo laconico e immortale commento fu: “Non salgo su una fottuta macchina del tempo.” Ne prese uno più tardi, senza che gli dicessero a che ora atterrava. Si presentò stile partita amatoriale con le squadre che già finivano di scaldarsi e ne appoggiò altri 40 abbondanti. Era un talento, un’istrione e un’icona. Forse, come disse lui in seguito, uno dei migliori trenta giocatori di tutti i tempi. Chi lo ha visto giocare tende a dargli ragione, pur restando queste classifiche soggettive. Quello che invece è un dato di fatto certo fu quello che aggiunse subito dopo. “Purtroppo ho speso oltre metà dei miei guadagni attraverso il mio naso.” A St. Louis infatti Barnes fa la conoscenza con la “signora bianca”, diventandone totalmente dipendente. Nel 1976 la ABA fu costretta a chiudere per problemi economici, e alcune delle franchigie passarono direttamente alla NBA. Marvin firmò con i Pistons di Detroit, ma si era appena dichiarato colpevole della famosa aggressione col cric di qualche anno prima, ottenendo una multa di diecimila dollari e la libertà vigilata. Libertà che, poco prima che iniziasse la stagione, Barnes violò portandosi dietro una pistola scarica all’aeroporto di Detroit. Scattarono le manette, e ci furono 152 giorni di prigione vera e propria. Non furono gli unici. La stampa gli aveva appiccicato il soprannome di “bad news” (cattive notizie), e lui tenne sempre fede a tale soprannome. La coca lo rovinò letteralmente, ed il precipitare delle sue cifre negli anni seguenti lo testimoniò in maniera inequivocabile. Marvin passò da Detroit a Buffalo, poi a Boston ed infine a San Diego. Nemmeno i Celtics e il loro “pride” ebbero effetto su di lui, ragazzo cresciuto col sogno di giocare al Boston Garden. In quegli anni c’era solo la cocaina, che consumava spesso e volentieri in campo, nascosta sotto un asciugamano, prima di entrare sul parquet. Scene tremende, di cui raccontò lui stesso, col naso sanguinante e i compagni che si tenevano a 5-6 posti di distanza da lui in panchina. Chiuse una carriera NBA troppo breve a San Diego, dove finì addirittura senza una casa e senza un lavoro. Provò a ingaggiarlo Trieste per la nostra serie A1, ma il talento arrivava a sprazzi, il fisico era appesantito e l’uomo era distrutto. Arrestato come partecipante ad un festino a base di quel che potete facilmente immaginare, tagliato dopo sette partite, fuggito in America per cercare di recuperare l’irrecuperabile. Il tabellino, una volta altisonante, parlava ora di furto con scasso, possesso di droga, violazione di proprietà privata per aver scassinato un’auto e, per scavare toccato il fondo, furto di videocassette per adulti. Condanne varie. Carcere duro in Texas, dove “i secondini non venivano a dividerti quando iniziava una rissa, ma a raccoglierti quando tutto era finito.” Tentativi continui ed inutili di smettere con programmi di riabilitazione (se ne contarono oltre 20). Ricadute, sempre, in quel nomignolo maledetto di Bad News come nel 2007, quando fu arrestato con una borsa piena di coca. O come nel 2009, ultima cattiva notizia (altro arresto) di cui abbiamo segnalazione.

Marvin Barnes oggi

E adesso? E adesso, forse, un filo di luce, di speranza e di ottimismo per il futuro. Barnes, aiutato finanziariamente dall’ex proprietario di St. Louis che si offrì di pagargli le spese, memore del buon cuore che Marvin dimostrava di avere ai tempi, è entrato in un programma chiamato Rebound Foundation che si occupa di aiutare i bambini e i giovani delle zone in cui è cresciuto, per fare in modo che stiano lontani da tutti i pericoli che lui stesso ha provato e vissuto sulla sua pelle.

Perché magari la provvidenza hai deciso di prenderla a calci quando ti si era presentata, ma nulla vieta di poterne indossare i panni per farla arrivare a chi, forse, potrebbe avere più voglia di accoglierla. Almeno questa sarebbe una Good News.