La Mitteleuropa fantastica e tragica delle botteghe di Schulz

Pubblicato il 6 Luglio 2012 alle 19:18 Autore: EaST Journal
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La Mitteleuropa fantastica e tragica delle botteghe di Schulz

 

Pochi dubbi al riguardo, se esistessero parametri per stabilire un mitteleuropeismo certificato, garantito e (dati i tempi) innegabilmente doloroso. Poiché Bruno Schulz nasce a Drohobyč, cittadina ucraina dell’oblast’ di Leopoli. Zona detta anche L’vivščyna al confine con la Polonia. Da una famiglia di ebrei della Galizia, la più grande e popolata tra le province dell’impero austro-ungarico. Nel cuore del cuore d’Europa l’infanzia a Leopoli, quindi studio viennese e ritorno in Galizia. Poi il patto Molotov-Ribbentrop. Poi la città invasa dalla Unione Sovietica. Poi la Germania nazista e l’Operazione Barbarossa. Il ghetto e il lavoro per l’ufficiale delle Schutzstaffel Felix Landau. Gunther e uno sparo alla nuca e la morte – per strada e per vendetta – con il corpo che finisce in una fossa comune.

L’esperienza mitteleuropea come somma di suggestioni, stimoli e contaminazione, e l’idioma polacco che è in primis vicinanza culturale con Varsavia – non se la prenda Kiev – e l’apprendimento del tedesco. La conoscenza della letteratura e poesia boema, o l’arte sperimentale russa di Chagal e l’austriaca di Kubin.
Schulz che scompare lasciando indelebile traccia nell’opera del polacco Gombrowicz («tutta la nostra generazione è cresciuta all’ombra di Schulz» è citazione ripetuta come un mantra) e Kantor. Nel praghese Hrabal o Grossman.

«Le botteghe color cannella» è la sua prima e più famosa raccolta di racconti. Il tentativo attraverso l’invenzione linguistica e la fantasia di ricostruirsi una infanzia e giovinezza partendo dal ristretto spazio che fu il piccolo negozio di stoffe del padre Jacob. Un uomo e un luogo capaci di anticipare di qualche decennio lo Snoopy e la cuccia di un secondo Schulz immaginandosi capaci di volare, di scoprire animali incredibili o diventando pompiere. Relazionandosi ai giocattoli come agli oggetti serissimi quali sono, nonché ai familiari o la domestica nelle vesti di pianeti diversissimi, e ciò che li lega identificabile o comprensibile con occhi nuovi. La comunità della scuola e la solitudine, spostandosi nello spazio e nel tempo e sublimando il reale con l’intensità del mito o l’impalpabilità del sogno. Tra illusione e ironia e cupezza e comicità, fantascienza e l’attitudine al fantastico tipica della tradizione ebraica centro-europea.

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Nel «Trattato dei manichini» si scrive del demiurgo. Di colui che plasma e modella la materia donandole la vita. Di suo padre: «vale la pena notare come tutte le cose a contatto con quell’uomo straordinario risalissero in certo qual modo alla radice della loro esistenza, ricostruissero la loro realtà fenomenica fino al nucleo metafisico, tornassero all’idea primigenia per distaccarsene e volgere in quelle regioni dubbie, rischiose e ambigue che chiameremo qui, brevemente, regioni della grande eresia.» Non sono lontani echi golemici praghesi identificabili pure negli scarafaggi kafkiani a zonzo per la bottega, neri e sfuggenti e perennemente in direzione degli angoli più remoti. O le frequenti contrapposizioni nel testo, su tutto l’alternanza di colori e luci: grigio e illuminato l’esterno, colorato ma buio lo spazio chiuso. Ma anche la ferma consapevolezza che ci sia un qualche significato o legge a guidare tutto ciò che esiste, e la capacità di esulare da questa convinzione a favore di un inevitabile senso di isolamento.
Gli uccelli tramite per narrare il declino paterno, uomo anziano e debole che però è perno attivissimo della storia, o Nemrod il cagnolino abbandonato e obbligato a riadattarsi, adeguarsi: chi non è stato abbandonato e costretto al cambiamento?
Tuttavia sarebbe riduttivo identificare nelle singolarità del testo eventuali raffronti o rimandi. Poiché «Le botteghe color cannella» è senza dubbio un qualcosa di unico e come tale va inteso. Testo prodotto di un passato ben specifico e cultura ben specifica ma con aspetti estremamente propri e attuali visto quanto reinventare l’infanzia è sì pratica antichissima e diffusa eppure in grado di offrire sempre spunti rinnovati.

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L'autore: EaST Journal

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