M5S, sicuri che sia un flop?

Pubblicato il 28 Maggio 2013 alle 18:40 Autore: Gabriele Maestri
movimento 5 stelle m5s

E tracollo fu. Ma anche flop, débacle, crollo e altri sinonimi possibili. Non ci si è risparmiati per dare un nome al risultato ottenuto dal MoVimento 5 Stelle in questo turno di elezioni amministrative: la flessione riscontrata nel consenso della formazione legata a Beppe Grillo ha rappresentato probabilmente uno dei dati più commentati ieri. Vale forse la pena, allora, fermarsi un attimo a riflettere e chiedersi: è stato davvero così?

Certo, a guardare soltanto i numeri, avulsi da ogni contesto, sembrerebbe facile dire di sì: il 12,43% ottenuto a Roma dal candidato sindaco Marcello De Vito (e il vicino 12,82% del MoVimento) è meno della metà del 27,27% raccolto a febbraio alle elezioni politiche sul territorio comunale e, in fondo, è distante anche dal 20,09% del «cittadino» candidato alla guida della Pisana, Davide Barillari (ma per il simbolo alle regionali aveva votato il 16,84%). Il calo, inutile negarlo, c’è. Parlare di flop, tuttavia, non sembra corretto se prima non ci si è chiesti se ad essere “anomalo” è il risultato odierno, oppure quello delle elezioni politiche di febbraio.

A guardare attentamente il contesto, sembra che l’ultima soluzione sia quella più fondata. Molti analisti (vale per chi ha effettuato ricerche di mercato come Nando Pagnoncelli o per esperti di dinamiche socio-partitiche come Piergiorgio Corbetta) hanno riconosciuto che buona parte dei voti ottenuti dalle liste di Beppe Grillo sono stati decisi negli ultimi giorni, probabilmente sulla scorta di ragionamenti che intendevano premiare una formazione che nell’ambito delle elezioni politiche era “nuova” ma aveva già fatto parlare di sé a livello locale; non è da escludere che l’atteggiamento tenuto dai partiti maggiori in campagna elettorale, nonché alcuni altri episodi che possono aver fatto apparire il M5S come soggetto “sotto attacco” (si pensi anche solo al simbolo “clone” presentato al Viminale a gennaio) e le immagini – circolate essenzialmente sul web – delle piazze piene dello «Tsunami tour» di Grillo abbiano convinto più di qualcuno ad andare (o a tornare) a votare per i 5 Stelle, magari abbandonando forze più tradizionali che però in quel momento non sembravano abbastanza convincenti.

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Se è così, non c’è da stupirsi che quella parte di voti (che Corbetta ha individuato circa in un 10%) sia più “volatile” e possa aver cambiato obiettivo in fretta oppure – visto il tasso di astensionismo – abbia ripreso a disertare le urne: poco conta che lo abbiano deciso per le polemiche legate alla diaria, per non avere condiviso la scelta di non partecipare al governo del paese (se non da protagonisti) o per altre ragioni, di fatto quei consensi sarebbero stati i primi a prendere altre vie. A quanto pare, è ciò che è accaduto. Il 16-17% che si ottiene sottraendo quel 10% di consensi di cui si diceva prima è decisamente più vicino al risultato ottenuto in molti comuni in questi giorni: la differenza percentuale che ancora residua può essere la misura del calo effettivo di consensi, non la si può negare, ma il fenomeno a questo punto ha ben altre dimensioni.

Che il “nucleo duro” di consenso del M5s sia aumentato nel tempo, in ogni caso, è indubitabile. Per dire, alle elezioni regionali del 2010 il MoVimento 5 Stelle (alla prima apparizione “ufficiale” con il simbolo in uso tuttora) aveva ottenuto il 6%, che saliva al 7% per il suo candidato alla presidenza della Regione, Giovanni Favia: già allora si parlò di una sorta di “miracolo”, una presenza decisamente superiore alle aspettative, ma da allora i numeri ottenuti dagli attivisti a 5 Stelle sono aumentati dappertutto. A parziale smentita di quanto detto prima, si potrebbe citare il caso di Parma 2012, in cui – prima di imporsi sul candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli al secondo turno – Federico Pizzarotti arrivò al ballottaggio sfiorando il 20%, molto di più di quanto ottenuto ora in tante consultazioni locali dal MoVimento: non si può dimenticare tuttavia che in quell’occasione il centrodestra era reduce da uno scandalo che aveva portato alla fine prematura della consiliatura (e infatti il Pdl era uscito dalle elezioni con le ossa rotte, senza toccare nemmeno il 5%) e verosimilmente era stato facile per il M5S porsi, in una chiave legalitaria, come forza realmente alternativa al passato e dunque in grado di attirare voti.

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L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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