Se uno stagista muore di lavoro

Pubblicato il 21 Agosto 2013 alle 15:54 Autore: Gabriele Maestri

“Stanco morto”. L’espressione è nota, forse anche un po’ datata, eppure due giorni fa, a Londra, quelle due parole hanno preso drammaticamente corpo. Un corpo che ha le sembianze di Moritz Erhardt, 21 anni, professione stagista.

I giornali ci avvertono che forse soffriva di epilessia – e questo può avere determinato l’esito della storia che raccontiamo – ma il “dettaglio” che interessa è un numero. Anzi, due. 3 e 21.

In Italia, i giuristi penserebbero a due articoli fondamentali della Costituzione, che tutelano l’uguaglianza e la libertà di espressione; qualcuno se li giocherebbe al lotto sperando di vincere qualcosa. Quei due numeri, invece, hanno condannato Moritz, che si è spento dopo che per tre giorni aveva lavorato ventun’ore filate, tentando di reggersi a tazze di caffè.

Lavorava alla Bank of America. O meglio, avrebbe forse lavorato, visto che stava finendo un tirocinio e sperava in un’assunzione: mancava una settimana, ma il suo interruttore si è spento prima. La banca ora se l’è cavata con un comunicato, in cui si è detta “scioccata” e “profondamente rattristata”.  Come se quelle parole potessero restituire anche solo una parte di Moritz.

Di certi problemi si parla solo a cadavere caldo, perché prima qualcuno non ha convenienza a farlo (e magari, se potesse, eviterebbe l’argomento anche dopo). Così, ora si parla delle grandi banche che costringerebbero gli stagisti a turni di lavoro proibitivi, anche di 14 ore al giorno. Non esiste giustificazione, ovviamente: non lo è la fama di un istituto di credito, non può esserlo nemmeno il compenso tutt’altro che basso che queste persone ricevono (si parla di circa 2.700 sterline al mese, oltre 3.100 euro, ma la vita a Londra è carissima).

Così ora esperti dicono che il problema si chiama extreme hours culture. “Le nottate di lavoro – a parlare è Andre Spicer, docente londinese di finanza – sono viste come un rito di passaggio che mostra a che punto uno stagista sia disposto a spingersi oltre ogni limite ragionevole al lavoro; spesso questa pratica viene esasperata dagli stagisti stessi, che vogliono emulare individui quasi eroici che lavorano giorno e notte per lunghi periodi”. Non accettare quelle ore di troppo, mentre magari il vicino di stanza lo fa, significa rischiare di non essere assunti.

Qualche inguaribile ottimista potrebbe dire che potrebbe andare peggio e tocca dargli ragione. Potrebbe andare come alla Casa Bianca, che i suoi intern non li ha mai pagati, ma li “usa” per nove ore al giorno, cinque giorni a settimana. Oppure come in Italia, in cui il termine “stagista” ha assunto il significato intrinseco di “tuttofare malpagato” (spesso non pagato), una figura attraverso la quale tanti uffici e realtà varie oggi sopravvivono, e che dell’idea di non doverli pagare (con la scusa del “fanno esperienza”) fanno un punto fermo.

Per dirla con le parole di Massimo Gramellini nel Buongiorno di oggi sulla Stampa, il problema sono “i pochi che lavorano troppo e i troppi che lavorano poco, o addirittura mai”. E di quei pochi che lavorano, troppi guadagnano poco e pochi (ma sempre troppi) guadagnano troppo (ma davvero troppo). Storie come questa danno seriamente l’impressione di essere su una giostra condotta da ubriachi. “Solo la politica avrebbe le chiavi per fermarla – conclude amaro Gramellini – ma le ha perse. Forse se l’è vendute”. Appunto.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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