NBA: Earvin Johnson jr., a kind of magic

Pubblicato il 9 Ottobre 2013 alle 14:56 Autore: Redazione

(9/10/2013) NBA: Earvin Johnson jr., a kind of magic.

Tra i cinquanta migliori giocatori di sempre eletti dalla NBA per i suoi 50 anni, ce ne sono alcuni più speciali di altri che si contendono lo scettro di miglior giocatore assoluto. Earvin Johnson jr., a discapito di un cognome di una normalità imbarazzante, è uno di questi. Uno di quegli atleti che ha segnato indelebilmente la storia del gioco. Parliamo infatti di un giocatore che ha vinto -dominando- a qualsiasi livello: dalla scuola superiore, al college alla nazionale, passando ovviamente per la lega. Ma non solo.

Per intenderci, è un giocatore talmente importante da essere conosciuto ancora dopo oltre vent’anni dal suo ritiro anche dai profani della palla a spicchi.
Proveremo a raccontarvelo guardano oltre i tre titoli di MVP, ossia di miglior giocatore della lega, dei cinque titoli e dei record personali e di squadra, ma per farlo occorre rimettere indietro la macchina del tempo di un po’, e iniziare il nostro racconto da Lansing, Michigan, e dalla squadra di High School di Everett, dove Earvin domina dall’alto dei suoi oltre due metri su tutti gli avversari. Prima parentesi: se vi immaginate il classico gigante tra i bambini che brutalizza gli avversari sotto canestro solo grazie al proprio fisico e alla statura avete capito male, a parte sul brutalizzare. Il ragazzo infatti gioca come playmaker, e inanella numeri che parlano sì di punti, ma anche di rimbalzi e valanghe di assist. Una sera al suo terzo anno, un giornalista locale, tale Fred Stabley Jr., dopo averlo visto in una delle sue più clamorose prestazioni (36 punti, 18 rimbalzi e 16 assist. A quindici anni eh..) gli affibbia un soprannome destinato ad appiccicarglisi addosso come la gomma sui jeans: Magic.

Magic è un fenomeno vero, e tutta America inizia a parlare di lui. Quando va a Michigan State al college, già al secondo anno porta i suoi alle finali nazionali, dove all’ultimo atto della contesa incrocia le armi con un altro che farà parlare di se parecchio: Larry Bird. Il primo atto della sfida infinita di questi due campioni termina in favore del play di colore, che coi suoi 24 punti e una squadra decisamente superiore si aggiudica il torneo. Chi sia stato votato miglior giocatore delle finali non sto neanche a dirvelo.

Magic Johnson

Magic Johnson

Come detto però la sfida con Bird è solo al suo primo atto, e caso vuole che per una scriteriata scelta degli allora New Orleans Jazz, i Lakers, già una delle più forti franchigie della NBA, si ritrovino a poter avere la prima scelta assoluta tra i talenti in uscita dal college. La scelta è fin troppo semplice, e così i due rivali si ritrovano ai poli opposti di quella che probabilmente è una delle rivalità più forti dello sport americano (Bird è stato scelto da Boston un anno prima pur avendo un ultimo anno da giocare a Indiana State). All’arrivo nella NBA Magic rivoluziona completamente il senso del gioco. Non si era mai visto infatti un giocatore di 206 cm con la sua proprietà di palleggio e la sua visione di gioco, per non parlare della fantasia nei passaggi. Magic diventa negli anni il perno fondamentale dei Lakers dello show time, un esaltante sistema di gioco ideato da Coach Pat Riley in cui il contropiede era non solo una micidiale arma, ma anche una vera e propria forma di spettacolo per far impazzire il pubblico. Youtube per credere.. Magic incontrerà Bird per tre volte in finale e i due si divideranno ben otto titoli NBA, ma a detta di tanti il più clamoroso resta il primo.

Altro flashback: al primo anno Magic porta i suoi in finale, grazie anche alla presenza di un giocatore dominante vicino a canestro come Kareem Abdul Jabbar, ma prima della sesta gara a Philadelphia il centro si infortuna a un ginocchio, ed essendo i Lakers in vantaggio per 3 a 2, lo staff decide di non rischiarlo per tentare il tutto per tutto in una eventuale “bella” alla settima. Non servirà. Magic sull’aereo della squadra, col suo classico ed ammorbante sorriso dice a tutti testualmente: “no fear, Magic is here”. Se pensate ad un eccesso di presunzione giovanile, beh sappiate che quel giorno saltò per la palla a due come centro titolare e giocò tutti e cinque i ruoli, terminando con un irreale score di 42 punti, 15 assist, 7 rimbalzi e 3 recuperi, vincendo partita e serie. Incredibile per un veterano, figurarsi per uno al suo primo anno. Fu eletto miglior giocatore delle finali, prima matricola della storia a riuscire in questa impresa.

Passano da allora altre undici stagioni, con altri quattro titoli in otto finali raggiunte, ma parlare dei numeri di Magic è riduttivo, oltre che facilmente reperibile con qualsiasi connessione internet. Potremmo parlare dello showtime, del sorriso, dell’immenso carisma dentro ma soprattutto fuori dal campo, ritagliato dal sarto per Hollywood ed il suo ambiente mondano, ma in un modo o nell’altro arriveremmo lo stesso a quel maledetto 7 novembre del 1991, quando con uno scioccante annuncio Magic comunicò al mondo di essere sieropositivo.

Il Dream Team

Il Dream Team

Oggi di questa malattia si sa molto di più, e i passi avanti sono stati enormi, ma allora essere sieropositivi significava il 100% di possibilità di prendere l’AIDS, sostanzialmente quindi una condanna a morte. Magic non cercò alibi, ammettendo le proprie colpe e la propria condotta poco corretta fuori dal campo. Sottolineò però anche come per lui questa fosse una partita da giocare, esattamente come tutte le altre affrontate in campo, e che avrebbe lottato con tutte le sue forze per continuare a vivere. Decise di ritirarsi, quasi a mettere la parola fine su una delle storie di basket più belle di sempre, ma certe storie, come certi amori di Vendittiana memoria, non finiscono. Nel 1992 infatti si votava ancora per eleggere i quintetti della partita delle stelle di febbraio tramite un cartoncino distribuito esclusivamente agli spettatori delle partite. Con incredula sorpresa e alla faccia della scelta di ritirarsi, Magic fu selezionato dal pubblico come play titolare della squadra dell’ovest. Nonostante la titubanza di diversi suoi colleghi (e pure di alcuni compagni di squadra), con il parere favorevole dei medici Magic giocò, scrivendo così sul campo della sua omonima squadra di Orlando (i Magic appunto) uno dei lieti fine più belli e sorprendenti che si potessero immaginare. Con 24 punti, 9 assist e 5 rimbalzi non giocò, ma dipinse letteralmente pallacanestro, e venne infatti premiato come miglior giocatore del match. Magic in un certo senso ce l’aveva fatta. E non si fermò lì. Partecipò da protagonista alle olimpiadi di Barcellona con il Dream Team, la squadra più forte di sempre, vincendo agevolmente l’oro.

La sua carriera continuò con alterne fortune, prima da allenatore (sempre ai Lakers, ma non andò benissimo..) e poi due anni dopo ancora da giocatore (portando una mediocre versione dei gialloviola di nuovo ai play off), poi ancora in qualche lega minore europea, ma quel che fece quel giorno del 1992 fu molto più importante di tutto il resto. Magic mostrò al mondo un altro modo di poter gestire il rapporto con la sieropositività, e vincendo negli anni lo scetticismo anche dei colleghi più diffidenti, ottenne quella che forse è una delle più colossali vittorie per uno sportivo di qualsiasi sport a qualsiasi livello. Aprire gli occhi portando informazione e cultura su un problema di quella portata.

E se mi è permessa un’ulteriore considerazione, essere ricordato per il suo infinito talento, e non per la sua malattia. A kind of magic

Marco Minozzi

L'autore: Redazione

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