Votare solo domenica, per risparmiare

Pubblicato il 17 Ottobre 2013 alle 14:40 Autore: Gabriele Maestri
scheda legge elettorale

Il testo definitivo del disegno di legge di stabilità non c’è ancora, ma è probabile che da qualche parte, al suo interno, si trovi una frase come questa: “Le operazioni di votazione terminano alle ore 22 in tutte le sezioni elettorali“. La stessa con cui la legge n. 277/1993 (quella che introdusse il sistema elettorale noto come Mattarellum, per capirsi) mandò temporaneamente a riposo una tradizione consolidata, che teneva aperti i seggi per tutta la giornata di domenica e anche il lunedì mattina.

Con quella legge, dunque, si stabilì che si poteva votare soltanto domenica, dalle 7 del mattino fino alle 10 di sera. Lo si fece per concentrare le operazioni in una sola giornata, ma anche con un occhio al bilancio. Ed è lo stesso motivo per cui la norma ritorna ora, dopo essere stata cancellata nel 2002. Il presidente del Consiglio parla di “un risparmio secco di 100 milioni di euro”. Mica bruscolini, certamente in un’ottica di bilancio fanno comodo (tra corrente e riscaldamento risparmiati, forze militari impiegate per meno tempo e – forse – qualche ritocchino all’ingiù delle indennità del personale dei seggi).

ELEZIONI 2013: SEGGI ELETTORALI A ROMA

Il voto in un unico giorno fu sperimentato più volte, già a partire dalle elezioni amministrative dell’autunno 1993: a Roma, Napoli, Venezia e altre città si votò solo domenica e tutto andò liscio. L’esperimento sulle politiche, però, dovette essere rimandato, perché quando si scelse di votare il 27 marzo 1994 insorse la popolazione di religione ebraica, visto che quel giorno era Pesach – la loro Pasqua – e fino al tramonto per precetti religiosi non avrebbero potuto andare ai seggi. Si corse ai ripari, permettendo il voto addirittura per tutta la giornata di lunedì, ma dalle europee di giugno si tornò alla sola domenica.

Tutti contenti per il risparmio di tempo e denaro? In teoria dovrebbero esserlo, in pratica c’è chi ha dubbi. Qualcuno ricorda ancora le file catastrofiche che si erano formate il 13 maggio 2001 davanti ai seggi di alcune città, specie quelle più grandi, protrattesi ben oltre le ore 22 e che richiesero l’intervento della forza pubblica perché tutti potessero votare anche molto tempo dopo l’orario di chiusura dei seggi.

In molti diedero la colpa al governo: allora il presidente del Consiglio era Giuliano Amato e il ministero dell’interno era retto da Enzo Bianco. Quel giorno, in realtà, ci si mise di tutto a peggiorare le cose. Da una parte, la finanziaria del 1997 aveva ridotto di un terzo le sezioni elettorali (sempre per ragioni di budget), concentrando inevitabilmente più persone nello stesso luogo; dall’altra, molti comuni non avevano aumentato le cabine all’interno di ogni sezione (anche se il Viminale l’aveva chiesto) e la fila era più difficile da smaltire.

In qualche comune poi si doveva votare anche per le elezioni amministrative (aumentando le schede da distribuire) e che al sud, dove spesso mancavano le cabine aggiuntive, gli elettori sono abituati ad andare tardi ai seggi, per evitare la calura. Risultato, a Napoli come a Reggio Calabria e pure a Roma la gente era inferocita e gridò allo scandalo.

Enzo Bianco dovette organizzare la forza pubblica per garantire il voto fino a mezzanotte e passa e dovette pregare le televisioni di non diffondere gli exit-poll alle 22, per non influenzare gli elettori. I dati, ovviamente, tra i giornalisti circolarono comunque, il tutto per la gioia di soggetti imperdibili come Giuliano Ferrara che, nel salotto di Rai1, gongolava sprofondato sulla poltrona dicendo “Se volete che faccia il birichino, lo faccio!” e mostrava furbetto alle telecamere un blocco con la scritta a penna “Ha vinto il Cav”.

Manco a dirlo, nel 2002 il ministro dell’interno Claudio Scajola propose e ottenne di tornare al voto anche lunedì. A distanza di oltre dieci anni, però, si sceglie di tornare al risparmio. Pensando che, in fondo, tenere i seggi aperti in un giorno lavorativo è qualcosa che si può evitare (mentre nessuno ha fatto seri passi in avanti sul problema degli spazi dei seggi, che dovrebbero lasciare le scuole quanto prima per non interferire con le lezioni già risicate). O forse si è guardato ai dati dell’affluenza delle ultime consultazioni politiche e si è pensato che non è dall’affollamento che occorre guardarsi, ma dai seggi desolantemente vuoti.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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