Il carcere tra umanizzazione e innovazione

Pubblicato il 26 Ottobre 2013 alle 17:27 Autore: Redazione

Occorre affrontare il problema delle carceri con uno sguardo innovativo. Il nuovo governo ha deciso di servirsi di varie commissioni di esperti per riformulare azioni giuridiche e strutturali in materia penitenziaria. I nodi centrali passano per il sovraffollamento, vista l’incapacità di contenere corpi a sufficienza; tuttavia la rieducazione sancita dall’art. 27 c.3 Cost, senza l’abolizione di leggi criminogene – si veda la campagna 3leggi – lascerà i funzionari pedagogici e la magistratura di sorveglianza con la penna ingessata.

A questo, si aggiunga una riforma del sistema penale processuale che dovrebbe agire con tempi e procedure diverse per fatti reato di diversa gravità: è erroneo porre su medesimi piani furto, rapina, e truffa milionaria ai danni dello stato, così come il Codice Rocco datato 1930 dovrebbe volgere verso un’ondata di depenalizzazione.

I punti oscuri di cui pochi parlano riguardano l’organizzazione interna e delle risorse umane degli istituti di pena. Non ci si sofferma sulle risorse effettivamente disponibili per portare avanti la riabilitazione e il reinserimento sociale specie perché mancano protocolli PEA che rendono disorganico l’apporto professionale del personale tra gli istituti presenti in Italia. Il livello di risultato del lavoro potrebbe essere inserito e valutato rispetto agli obiettivi che la mission penitenziaria si propone: sicurezza e trattamento.

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L’istituto – che riesce a garantire sicurezza, ma nel contempo avvia diversi programmi di riabilitazione sul territorio, di concerto con gli uffici dell’esecuzione penale esterna – certamente avrà ben operato; se però le misure alternative non sono state avviate neanche per quel 30 per cento di condannati suscettibili di osservazione scientifica della personalità (e destinatari di un idoneo programma di trattamento, che la legge fissa in nove mesi) significa che qualche elemento sfugge.

Altro argomento è l’istruzione. Lasciare un adulto che entra in carcere non sapendo leggere e scrivere significa lasciarlo in condizioni di analfabetismo: anche se lo si avvia al lavoro, ci si dovrebbe sforzare perché possa seguire le lezioni di alfabetizzazione, altrimenti quando uscirà, oltre a essere spaesato dopo la reclusione, non saprà nemmeno leggere un cartello stradale. Sulla scia del Brasile si potrebbe concedere una decurtazione di pena ex art.54 o.p valutando criticamente la volontà di reinserimento attraverso la lettura di libri, discussi con insegnanti ed educatori: sul tema sembra andare una proposta di legge di Sel.

L’affettività è un altro grande tabù dell’amministrazione penitenziaria. Nei paesi nordici i reclusi di buona condotta e inseriti nei programmi di trattamento possono fruire di spartane casette di legno, dotate di telefono interno per qualsiasi evenienza, gli operatori della sicurezza mantengono una distanza di circa 15-20 metri: in questo modo la persona detenuta può trascorrere tempo con la propria famiglia o con coloro cui è legato sentimentalmente. Persino nei quaderni dell’istituto superiore degli studi penitenziari da poco è stato pubblicato un saggio che definisce dettagliatamente profilo giuridico e interventi in tema di affettività.

Occorre poi nominare un garante nazionale dei diritti dei detenuti, a coordinamento di tutti quelli che agiscono secondo tale status per conto degli enti territoriali, rendendo omogeneo il ruolo ma permettendo anche che sia programmato secondo le necessità di ogni territorio. Si tratta di una figura indispensabile, capace di operare in sinergia con la magistratura di sorveglianza: si pensi al delicato tema del diritto alla salute in carcere, in cui medico e magistrato, per il diverso ruolo professionale, non sempre hanno linee operative comuni.

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Stesso dicasi del lavoro, elemento principale del trattamento, che sempre più dovrà diventare elemento “esterno” al penitenziario: più che la nomina di un commissario del lavoro (che difficilmente potrebbe coniugare particolarità regionali diverse e frammentate), sarebbe forse meglio puntare a un pieno riconoscimento dell’apporto della direzione generale dei detenuti e del trattamento contestuale alla direzione dell’esecuzione penale esterna mediante i contributi della cassa ammende che (richiamando i Provveditorati regionali a garantire programmi di lavoro fattibili sul territorio) potrebbero coinvolgere ogni membro istituzionale, anche esterno, durante la fase progettuale.

Così si riporterebbe l’attenzione sul centro dell’amministrazione e sullo svolgimento di idee e progetti ai provveditorati sino alla concretezza nei vari istituti penitenziari. Un modo più trasparente perché il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria possa controllare l’uso dei vari capitoli di spesa.

L’ideale sarebbe applicare tutti questi piccoli accorgimenti, inserendo anche l’amministrazione penitenziaria in quell’agenda digitale che tra un anno ci chiama a presentare un progetto ICT innovativo per poter informatizzare tutti i processi lavorativi interni, in un’ottica di fruibilità e condivisione da parte di tutti i soggetti coinvolti e, addirittura, promuovendo l’accesso ai servizi direttamente mediante lo strumento informatico anche ai familiari degli utenti, spesso inconsapevoli delle norme previste dal regolamento interno.

Si comprende allora che discutere ancora di sovraffollamento porta a un empasse poco risolvibile se non si comincia da altri fronti, pensando a un eventuale “numero chiuso”, all’utilizzo del fantomatico braccialetto elettronico, a uno sviluppo informatizzato e condiviso dei processi lavorativi interni che non rimangano autoreferenziali ma possano essere condivisi con altri enti istituzionali e di diritto pubblico interessati alla sicurezza e alla riabilitazione dei condannati.

Evelina Cataldo

L'autore: Redazione

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