Le deludenti riforme della Cina di Xi Jimping: “Più mercato, meno Stato”

Pubblicato il 13 Novembre 2013 alle 18:27 Autore: Guglielmo Sano

 

Alta l’attenzione di tutta la Cina e degli investitori esteri che, in questi giorni, aspettavano con trepidazione il “programma decennale” di riforme al varo del Partito Comunista, riunitosi in un blindatissimo albergo alla periferia di Pechino.

Cominciato il 9 Novembre e terminato il 12, il “terzo plenum” (ovvero la terza riunione a partire dall’ultimo congresso del PCC del 1978, divenuta tappa importante per la Cina, quando Deng XiaoPing aprì al liberalismo e inaugurò la “via cinese al socialismo”) ha deluso le aspettative dei cittadini della seconda economia mondiale ma anche i mercati: le piazze di Shangai e Shenzen, infatti, hanno perso intorno al 2%.

Nel piano denominato “Decisione del Comitato Centrale del Partito Comunista Cinese su diverse importanti questioni dell’approfondimento onnicomprensivo delle riforme”, secondo la sintesi affidata dai vertici dello Stato cinese all’agenzia di stampa Xinhua, si legge che “economia di proprietà pubblica e di proprietà non pubblica sono parti importanti del sistema socialista”.

Un’affermazione che rappresenta più di un’apertura all’economia di libero mercato anche se, nello stesso documento, si precisa la necessità di “mantenere l’autorità del partito”; partito e Stato in Cina sono la stessa cosa.

Per mantenere il controllo statale su un’economia che si vuole più “aperta”, è prevista l’istituzione di due nuovi organismi: il “gruppo leader centrale” che si occuperà di attuare le riforme e il “comitato per la sicurezza nazionale” che curerà l’implementazione della sicurezza del paese (probabilmente sul calco della tristemente nota NSA statunitense).

“La questione principale è gestire in modo appropriato la relazione fra lo Stato e il mercato, così da permettere al mercato di giocare un ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse e consentire al governo di svolgere al meglio il suo compito”: un piano ambizioso che punta a ridefinire il ruolo dello Stato nell’economia ma che si configura come un elenco di obiettivi,senza soffermarsi sulle modalità con cui gli stessi si vogliono conseguire.

Plenum-Pcc

Tra il fumo delle proposte si riesce a rintracciare qualche riforma concreta come quella che conferirà ai contadini maggiori diritti di proprietà sulla terra.

Il suolo cinese, infatti, appartiene al Partito ma da anni si può stipulare un contratto di cessione a tempo con i coltivatori, ai quali viene concesso per 40,50,70 anni a seconda che la concessione abbia finalità residenziali, commerciali, industriali. Adesso le modalità di accesso alla concessione dovrebbero divenire più chiare e trasparenti, a beneficiarne soprattutto gli abitanti rurali che potranno ottenere maggiori profitti dalla “loro” terra considerata, comunque, di proprietà pubblica.

La Cina dovrebbe aprirsi alla concorrenza anche nei campi delle ferrovie, delle telecomunicazioni e della finanza, monopolizzati al momento dalle compagnie statali. Maggiore spazio agli investimenti stranieri, quindi, ai quali dovrebbe corrispondere un “giro di vite” contro la corruzione, vera piaga cinese, la burocrazia, lo smog e l’urbanizzazione incontrollata.

Quando il contenuto del piano verrà ufficializzato, sapremo se verrà cambiata anche la legge che vieta alle coppie cinesi, che abitano in città, di avere più di un figlio, un provvedimento che prevede multe salatissime a chi vi contravviene.

Il piano decennale ha come obiettivo quello di aumentare il reddito medio dei cinesi, di tenere il livello di crescita oltre il 7%(l’anno scorso valeva 9000 miliardi) e di fornire una risposta ai problemi di indebitamento, perdita di competitività, sovrapproduzione industriale che la Cina sta accusando dopo 30 anni di immensa espansione.

Sui siti cinesi, però, si diffonde la delusione: alle aperture sul fronte economico, infatti, non sembra corrisponderanno quelle sul fronte politico e delle libertà individuali come annunciato, nei giorni scorsi, da vari esponenti del Partito.  Pesano le lotte interne tra il leader e la fazione conservatrice dell’ex presidente Hu Jintao.

La vera paura dei dirigenti cinesi è quella di replicare la fine dell’Unione Sovietica: le dimostrazioni antigovernative stanno aumentando negli ultimi tempi (vedi attentato dinamitardo di fine Ottobre in Piazza Tienanmen operato dai separatisti islamici della provincia turcofona dello Xinjiang).

Per evitare una glasnost o una perestroika cinese si punta a una lenta ma inesorabile svolta, per ora esclusivamente economica, che punta a coinvolgere gli altri settori della società però. Un cambiamento che il governo vuole tenere, comunque, saldamente nelle sue mani e sotto controllo.

L'autore: Guglielmo Sano

Nato nel 1989 a Palermo, si laurea in Filosofia della conoscenza e della comunicazione per poi proseguire i suoi studi in Scienze filosofiche a Bologna. Giornalista pubblicista dal 2018 (Odg Sicilia), si occupa principalmente di politica e attualità
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