M5S-Boldrini, un match infinito

Pubblicato il 3 Febbraio 2014 alle 18:53 Autore: Gabriele Maestri
M5S, Beppe Grillo lancia l'hashtag #Boldriniacasa

M5S-Boldrini, un match infinito

Più che uno scontro sembra un match infinito, iniziato per lo meno a luglio e che – salvo cambiamenti sensibili e difficili da prevedere – rischia di continuare per tutta la legislatura. In una metà del campo c’è una donna, con un passato lunghissimo all’interno delle istituzioni internazionali umanitarie (essenzialmente come addetto stampa) e diventata a sorpresa presidente della Camera; nell’altra, una parte consistente della forza politica che, rifuggendo con sdegno la logica e i riti dei partiti, ha rischiato di vincere le ultime elezioni politiche, con un’affermazione del tutto inattesa per gran parte degli analisti e dei commentatori.

Intendiamoci, il MoVimento 5 Stelle ha abbondantemente polemizzato anche con altre cariche e realtà istituzionali, a partire dalla Presidenza della Repubblica (vedi alla voce “impeachment“, tanto per stare all’attualità), ma inevitabilmente lo scontro con Laura Boldrini, a suo modo una rivelazione della politica italiana, finisce per fare ancora più rumore. Soprattutto perché, dall’estate in avanti, ha assunto le forme di una vera e propria escalation.

M5S, Beppe Grillo lancia l'hashtag #Boldriniacasa dal blog

Non che i loro rapporti fossero iniziati nel migliore dei modi: all’indomani dell’elezione della Boldrini e di Grasso (che al Senato aveva raccolto qualche voto pure tra gli eletti M5S), la seconda e la terza carica dello Stato erano stati definiti “foglie di fico” da Beppe Grillo. Non era certo una dimostrazione di affetto, ma per lo meno le due figure erano indicate come il “meno peggio” di quanto la politica poteva esprimere: Grillo e i parlamentari legati a lui si erano limitati a chiedere alla Boldrini e a Grasso di tagliarsi seriamente lo stipendio (e di rinunciare all’indennità di carica) “come dei veri cittadini a 5 Stelle”.

L’idillio, insomma, non c’è mai stato, ma il fischio d’inizio del match è arrivato in piena estate, probabilmente il 20 agosto scorso: il giorno della famosa seduta necessaria per incardinare il disegno di legge di conversione del decreto sul femminicidio. A riguardare il resoconto di quel giorno, sembra di leggere le battute di un dialogo tra sordi. I deputati stellati avevano accusato la Boldrini di avere convocato solo formalmente l’aula per una seduta che sarebbe durata 20 minuti al massimo, senza riprendere a lavorare, lei aveva replicato piccata che la convocazione era un obbligo sancito dalla Costituzione, i M5S avevano risposto parlando di uno “spreco tra i 150 e i 200 mila euro”, provocando la reazione sdegnata della presidente.

Boldrini la camera risparmia

Quel giorno – bisogna ammetterlo, con la massima serenità – ai deputati stellati non si poteva dare torto. Perché è vero, verissimo che la convocazione era un obbligo costituzionale, ma era altrettanto vero che l’enfasi che era stata data dai media alla convocazione agostana della Camera era stata decisamente sproporzionata rispetto al “peso” dell’atto dovuto che l’aula era chiamata a compiere quel giorno. Per giunta sull’ennesimo decreto omnibus, che a dispetto dell’etichetta “femminicidio” conteneva le disposizioni più disparate, dalle frodi informatiche alla violenza negli stadi, con un vulnus grave (uno dei tanti) alla chiarezza e alla trasparenza. 

Nessun sacrificio di ferie a favore dell’efficienza dell’istituzione, dunque, come i toni “da ufficio stampa” usati nel divulgare la notizia sembravano far passare. Già quel giorno da alcuni esponenti del M5S erano volate parole pesanti verso la terza carica dello Stato (“Nella sua vita professionale ha sempre strumentalizzato le tragedie di poveri rifugiati – scrisse su Facebook il deputato Andrea Colletti – ora da Presidente della Camera strumentalizza omicidi di donne per farsi un po’ di pubblicità“); da quel momento, in ogni caso, il rapporto tra il M5S e la Boldrini sembra essersi deteriorato completamente.

Vuoi per il precedente agostano, vuoi perché di fatto la Boldrini è sì un esponente di minoranza, ma in fondo tra i parlamentari vicini a Grillo nessuno riesce a vederla così – e sembra di essere tornati ai tempi in cui Vito Crimi e altri rivendicavano per il M5S le presidenze delle commissioni di garanzia, in quando unica vera forza di opposizione, a differenza di Lega e Sel, nelle cui liste era candidata la Boldrini – le occasioni di scontro si sono moltiplicate.

protesta m5s dormono su tetto camera

Il mese di settembre, per dire, sembra un bollettino di guerra, aperto dall’episodio clamoroso dell’occupazione del tetto della Camera: i deputati del M5S volevano protestare contro il tentativo di mettere mano alla Costituzione derogando all’art. 138, ma certamente la Boldrini non ha gradito il gesto, al punto da accusare gli stessi parlamentari stellati di essere stati causa di sprechi, con il loro gesto. Difficile dire se aveva colpito di più l’omologazione del linguaggio (occhio per occhio, accusa di spreco per accusa di spreco) o la sensazione che fosse stato violato un altare della politica. Di certo, se da agosto il M5S sembra guardare con sospetto la Boldrini, lei da settembre in avanti si è mostrata assai meno tollerante nei confronti dei deputati stellati.

Così, non stupiscono le reazioni della presidente alla frase di Alessandro Di Battista “Il Pd è peggio del Pdl. Puniteci ma prima sbattete fuori i ladri” e alle accuse di “non imparzialità” durante il dibattito sul ddl anti-omofobia. Da una parte i parlamentari legati a Grillo non hanno certo calato la dose di provocazioni, verbali e non solo; dall’altra, è parso che la Boldrini abbia dato molto peso a infrazioni formali (in certi casi indubbiamente gravi), senza soffermarsi a sufficienza sulle obiezioni di contenuto di provenienza stellata, non di rado fondate.

M5S Di Battista Berlusconi voleva incontrarmi

L’episodio della “ghigliottina”, dunque, è solo l’ultimo episodio di una lunga serie, anche se rappresenta la summa di una lunga serie di comportamenti evitabili, da una parte e dall’altra. Perché era stata la stessa Boldrini a dire ai capigruppo che non era sua intenzione porre direttamente in votazione il testo della conversione del decreto Imu-Bankitalia, aggirando tutte le manovre di ostruzionismo (secondo una lettura inaugurata quattro legislature fa da Luciano Violante, sulla cui base giuridica peraltro ci sono dubbi), cosa che invece poi ha fatto. Si è trattato della prima volta in assoluto, come è stata  una delle poche volte in cui l’ostruzionismo dell’opposizione è durato così a lungo da mettere seriamente a rischio la conversione del decreto.

E così, allo stesso modo, sono stati certamente censurabili i comportamenti del M5S nella giornata di giovedì, con le occupazioni di aule e scranni, che non violano la sacralità del Parlamento meno della scorrettezza di cui loro stessi accusano parte degli altri eletti. Ma che ci fosse un reale pericolo di aggressione nei confronti della presidenza della Camera è tutto da vedere, quando magari a raffreddare il clima sarebbe bastato un atteggiamento diverso nel governo della seduta: anche l’episodio dello schiaffo Dambruoso-Lupo, certamente, non si sarebbe mai concretizzato in un altro contesto.

L’idea, dunque, è di un’esasperazione bilaterale dello scontro, che nessuna delle due parti sembra volere interrompere. Resterebbe da dire della pagina più avvilente e preoccupante, ossia gli insulti sessisti, quelli pronunciati verosimilmente in aula e soprattutto quelli espressi in rete da una platea ben più ampia di quella parlamentare. Qui, però, di politico non c’è proprio nulla e a monte bisognerebbe chiedersi perché le persone dovrebbero cadere così in basso nell’affrontare un avversario politico. Che troppi utenti Facebook (veri o troll che siano) abbiano agito così è vergognoso; nel frattempo, abbassare i toni converrebbe a tutti.

L'autore: Gabriele Maestri

Gabriele Maestri (1983), laureato in Giurisprudenza, è giornalista pubblicista e collabora con varie testate occupandosi di cronaca, politica e musica. Dottore di ricerca in Teoria dello Stato e Istituzioni politiche comparate presso l’Università di Roma La Sapienza e di nuovo dottorando in Scienze politiche - Studi di genere all'Università di Roma Tre (dove è stato assegnista di ricerca in Diritto pubblico comparato). E' inoltre collaboratore della cattedra di Diritto costituzionale presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, dove si occupa di diritto della radiotelevisione, educazione alla cittadinanza, bioetica e diritto dei partiti, con particolare riguardo ai loro emblemi. Ha scritto i libri "I simboli della discordia. Normativa e decisioni sui contrassegni dei partiti" (Giuffrè, 2012), "Per un pugno di simboli. Storie e mattane di una democrazia andata a male" (prefazione di Filippo Ceccarelli, Aracne, 2014) e, con Alberto Bertoli, "Come un uomo" (Infinito edizioni, 2015). Cura il sito www.isimbolidelladiscordia.it; collabora con TP dal 2013.
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