Caso Pagnani: non confondiamo l’assassino con gli imbecilli

Pubblicato il 5 Dicembre 2014 alle 18:51 Autore: Guido Scorza

Probabilmente, per quanto sia difficile da ammettere, ci stiamo drammaticamente abituando ai femminicidi. O forse la violenza animale che arma le mani di un uomo contro una donna, fino ad ucciderla, è un fatto divenuto tanto frequente da non fare più notizia. O ancora, forse le tragedie umane che pure si registrano quotidianamente, in quantità enorme, non sono più capaci di saziare la fame e voracità dei media.

Comunque sia, è un fatto che l’eccezionalità di un uomo che ha ucciso una donna e poi ha condiviso il delitto su Internet, non stia tanto (a giudizio dei media che ne danno notizia) nell’omicidio, quanto nella orgogliosa dichiarazione online di colpevolezza, accompagnata dall’approvazione di 300 utenti. Stiamo parlando diCosimo Pagnani, l’uomo che ha ucciso la ex moglie a colpi di coltello e ha poi condiviso su Facebook l’orribile gesto, apostrofando la donna con un ultimo insulto e ottenendo ben 300 like.

La “socializzazione”, quasi in real time, di un femminicidio non è un fatto di tutti i giorni. La “partecipazione” di una piccola folla di “amici” al macabro esultare del carnefice lo è ancora di meno. Ma accomunare chi ha commesso un crimine atroce con chi lo approva con un breve click del mouse, è un grosso errore. Ci vuole un distinguo tra assassini e idioti totali. Mettere il like su una dichiarazione di omicidio non equivale a uccidere, nemmeno sul piano morale.

Molti programmi televisivi, tuttavia, hanno cercato di indagare l’aspetto fenomenologico associato a Facebook, del fatto, e poi quello legale, chiamando avvocati di rito (televisivo) per capire se ed in che misura, esistano norme in grado di assicurare le patrie galere ai trecento imbecilli che hanno cliccato “mi piace” sotto al “sei morta, tr…!”.

Raccontare quello che è accaduto, anche online, a margine di un fatto di sangue di inaudita violenza e gravità davanti al quale non c’è – e non può esserci – abitudine o rassegnazione, è naturalmente cronaca e significa semplicemente raccontare il quotidiano nel quale viviamo e la nostra società. Indugiare e, talvolta, quasi esaltare un fatto collaterale come la follia nella follia di un omicida che esulta macabramente su Facebook, minaccia di suggerire una ridefinizione della scala delle priorità negative nei drammi umani inopportuna e perversa.

Costruire, a margine della tragedia di Postiglione, un caso sul come e perché trecento persone abbiano manifestato “approvazione” al gesto omicida del carnefice è sbagliato e fuorviante. Non c’è prova – non solo da portare in Tribunale ma neppure da condividere con l’opinione pubblica – del fatto che quelle trecento persone abbiano inteso mostrare approvazione per un gesto così grave.
Non ce n’è per tante ragioni.

Il click sul pulsantino con il pollice all’insù è un gesto, suggerito e reso straordinariamente semplice, dall’ergonomia di una piattaforma, che di quei click vive e che su quei click ha costruito una fortuna. È un gesto superficiale. Più simile al sorriso di circostanza che a un’approvazione pienamente consapevole.

Soprattutto, i trecento imbecilli e maleducati – perché la superficialità di dire “mi piace” sotto ad un’espressione che è e resta violenta quand’anche destinata ad un’oca abbattuta in una mattinata di caccia è, comunque, sintomo di preoccupante imbecillità o, almeno, maleducazione – cosa mai avrebbero potuto intuire da una frase completamente decontestualizzata con la quale un uomo, dice: “Sei morta, tr…”?

Si può davvero pensare che qualcuno dei trecento, leggendola, magari distrattamente sul proprio smartphone, abbia capito che il carnefice esultava per la mattanza della moglie e che chiedeva approvazione e condivisione del suo orrendo trionfo?
Si può davvero credere che, cliccando su “mi piace” quei trecento, abbiano inteso urlare al loro “amico” qualcosa tipo: “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”?
Personalmente, lo escluderei.
O forse troppa fiducia nel genere umano?

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