La minoranza nel Pdl: i rischi di Fini (e quelli del Pd)

Pubblicato il 22 Aprile 2010 alle 17:22 Autore: Livio Ricciardelli
La minoranza nel Pdl: i rischi di Fini (e quelli del Pd)

Stiamo vivendo una fase nuova nello scenario politico italiano. Nonostante si consideri la dialettica interna al principale partito di centrodestra come “semplice discussione legata alla vittoria elettorale alle regionali” (ma non si dovrebbe litigare e rimettere in discussione tutto quando si perde?!?) pare essere finito il cesarismo all’interno del Popolo della Libertà.

Dopo molti mugugni del Presidente della Camera Fini e dopo molte critiche ufficiose e trapelate solo nei retroscena di qualche giornale, lo scontro si è fatto esplicito nel partito di governo: prima un pranzo tra Berlusconi e Fini dove sono volate parole grosse sul governo e sulla forte golden share leghista. Poi gli scontri in televisione tra i reduci dei colonnelli finiani (anche se nella complesso organigramma della vecchia An Bocchino e Urso avevano il grado di maggiori) e i soliti plenipotenziari berlusconiani (che hanno in Maurizio Lupi un nuovo modello di riferimento ideologico). Infine documenti contrastanti del gruppo di Fini (38 deputati e 14 senatori) e del gruppo degli ex di An lealisti verso il loro nuovo capo Silvio Berlusconi.

Questa situazione ha portato alla Direzione Nazionale del Pdl (la prima ad essere convocata dopo più di un anno dal congresso fondativo del partito) dove si è esposta al mondo e a Dio (come direbbe Emanuele Filiberto, aspirante chansonnier del pueblo berlusconiano) l’esistenza di una corrente di minoranza all’interno del Partito e l’esistenza di forti dissapori e diversità di vedute tra il premier e il co-fondatore del partito.

Fini attendeva il suo intervento alla Direzione come i bambini aspettano la festività natalizia per ricevere doni: il suo discorso a braccio si è concentrato sulle critiche alla subalternità del Pdl alla politica leghista, ribadendo per l’ennesima volta che tra due cose identiche la gente sceglie sempre l’originale (quindi il Carroccio) e che non è un atto di lesa maestà criticare la gestione del partito così come non risulta essere un tradimento l’esposizione di queste critiche al pubblico.

Berlusconi ha ribadito le sue alte tesi politologiche (giusto ricordare che quando Fini gli ha chiesto al telefono qualcosa riguardante le riforme istituzionali il premier ha risposto coi soliti slogan della serie “l’amore vince sempre sull’odio e sull’invidia”) e ha fortemente criticato la condotta politica dei fedelissimi finiani rei di offuscare l’immagine del partito e del governo del fare.

Lo scontro è stato diretto durante l’intervento di Berlusconi, quando Fini si è alzato dalla sedia rivendicando tra l’altro l’immobilismo del partito a proposito della complessa disputa riguardante lo stallo della giunta regionale siciliana. Il premier da parte sua ricordava come nel celebre pranzo, testimone Gianni Letta, Fini avesse minacciato di creare gruppi parlamentari autonomi e di essersi pentito di aver fondato il Pdl.

Il primo elemento da cogliere in tutta questa discussione è facilmente individuabile analizzando i precedenti dei dibattiti interni esistenti in Forza Italia prima e nel Pdl poi.

Chi vi scrive amava definire, alla veneranda età di 14 anni, Forza Italia come il più grande “partito comunista, di tipo sovietico, dell’Europa occidentale”. Questo non solo per le fastose scenografie dei suoi pur rari congressi che differivano da quelli del vecchio Pcus moscovita solo per il predominante colore azzurro. Ma anche perché la dialettica interna a quel partito appariva come una dialettica inutile, plebiscitaria e di culto del capo.

L’ultimo congresso di Forza Italia fu una mega assemblea che si tenne alla vigilia delle elezioni europee del 2004 presso qualche padiglione a Rimini in cui si alternarono discorsi inconcludenti e poco concreti sotto lo sguardo poco convinto di Alfredo Biondi che vedeva sgretolarsi davanti a se il sogno di un “partito liberale di massa”. Quel partito che nel 1994 gli era stato promesso da Silvio Berlusconi.

Quel congresso di Rimini vide, in tutte e tre le giornate di lavori, lunghi interventi del Presidente Berlusconi (anche se ultimamente gran parte della storiografia tende a rivalutare quel congresso in quanto girò in sala un sondaggio clandestino sulla successione, politica, al presidente del consiglio).

Altri esempi di mancanza di dialettica fu il consiglio nazionale del febbraio 2005 al Palazzo dei Congressi dell’Eur. Finito nel dimenticatoio perché convocato per una sola ragione: cercare di oscurare mediaticamente il contemporaneo congresso dei Ds al non lontano Pala Lottomatica. Obbiettivo assolutamente mancato.

Ma ad essere onesti l’uomo che attualmente forma una minoranza nel Pdl e che invoca un rischio cesarismo in questo partito a suo tempo era leader di una forza politica che, seppur ben diversa dal Pdl a causa della presenza di tre stratificate correnti, non brillava per democraticità in quanto strutturata con una logica puramente “presidenziale”. Basti ricordare il totale azzeramento dei vertici di An da parte di Fini dopo che un giornalista de “Il Tempo” aveva riportato sul suo giornale una discussione tra i colonnelli presso la “Caffettiera” dove si criticava il “Generale” e si metteva in discussione il suo stato psico-fisico.

Se si aggiunge l’aspetto, per quanto semplicistico, che nell’arco di 16 anni si riesce bene a capire se si è grandi amici oppure, nella peggiore delle ipotesi, se si è “grandi democratici”, è legittimo pensare che oggi cambia qualcosa nel Pdl ma che, per esperienza, nulla può essere considerato come definitivo e non possiamo escludere aprioristicamente un cambio di scenario molto spesso stimolato dalle situazioni d’emergenza (ricordate il predellino e le comiche finali? Dopo qualche giorno Fini semplicemente aveva “cambiato idea”).

Ma i rischi non sono solo per Fini che un giorno, non possiamo escludere, potrebbe riaccodarsi al Cavaliere. Ma sono anche per il Partito Democratico.

Gran parte dei media ironizzano, analizzando le ultime prese di posizione del Presidente della Camera, sul “compagno Fini” e sul “Fini diventato di sinistra”.

L’a-normalità dello scenario politico italiano porta a credere che un qualsiasi concetto “normale” e quindi alternativo al berlusconismo sia di sinistra, anche se si tratta di temi e di proposte propriamente di destra. Da qui i luoghi comuni su Fini che comunque nell’arco della sua lunga carriera politica ha senza dubbio cambiato molte posizioni.

Questi luoghi comuni possono mettere in trappola il Partito Democratico: non solo perché lo spingono a sostenere o a simpatizzare per una personalità politica che potrebbe cambiare idea fino all’ultimo. Ma anche perché Fini oggi come oggi è considerabile come persona da sostenere dall’esterno per cambiare la deriva plebiscitaria e autoritaria del Pdl.

La cosa può anche essere umana, ma nasconde una profonda debolezza: quando una forza politica o uno schieramento, in questo caso il Pd, si riduce a dover fare il tifo per un’area o una componente interna allo schieramento politico avverso, in questo caso il Pdl, non solo vuol dire che si è politicamente poco attivi ma anche che si rischia di dipendere, in ogni caso, dall’altro schieramento politico.

Indipendentemente dal tema delle riforme istituzionali, il Pd sostenendo e accaldandosi troppo nel sostenere le posizioni finiane in seno al Pdl, rischia di esplicitare la sua profonda arretratezza programmatica e la sua incapacità nell’apparire come forza politica realmente capace di proporre una seria alternativa al governo della destra. Mentre dovrebbe reggersi maggiormente sulle sue gambe e puntare sulle sue forze interne. Indipendentemente da ciò che accade dall’altra parte della barricata.

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L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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