L’Abilitazione scientifica nazionale nell’occhio del ciclone: alcune modeste proposte

Pubblicato il 6 Febbraio 2014 alle 15:21 Autore: Andrea Mariuzzo
L’Abilitazione scientifica nazionale nell’occhio del ciclone: alcune modeste proposte

Il 30 novembre dello scorso anno sono scaduti i termini (più volte prorogati) per la presentazione al ministero dei risultati della prima tornata dell’Abilitazione scientifica nazionale. Si tratta di un passaggio importante, almeno in teoria, per  il settore nevralgico del reclutamento e delle carriere nel mondo accademico, uno dei nodi strutturali su cui la riforma del 2010 ha operato più in profondità e con i risultati più nebulosi e incerti. Soltanto chi da questa procedura di verifica del curriculum e dei risultati scientifici otterrà l’idoneità nel settore di riferimento potrà aspirare all’ingresso in una delle due fasce stabilizzate dell’insegnamento universitario.

A quella data è seguito un lungo e tormentato lavoro di revisione della correttezza dei verbali e dei risultati da parte dell’amministrazione ministeriale, e nelle settimane si sono moltiplicate dall’esterno le obiezioni di metodo unite a non meno giustificate ma più difficilmente argomentabili difformità nei giudizi di merito: gli indicatori bibliometrici quantitativi, già tanto criticati per le modalità di rilevazione che li rendevano troppo elevati (e quindi inservibili) per le scienze “dure” e troppo “leggeri” nei settori umanistici e sociali, sono stati considerati in forme diverse, e spesso “corretti” con la richiesta di altri dati di curriculum variabili da una commissione all’altra; le percentuali di abilitati molto simili in diversi ambiti disciplinari (di solito, l’idoneità al ruolo di professore associato è toccata a circa il 40% dei richiedenti, seppur con oscillazioni significative da caso a caso) lasciano pensare a un improprio intervento regolatore “dall’alto”; ci si chiede infine a che cosa possa servire abilitare, e quindi incoraggiare a investire ulteriore tempo e fatica nella carriera di ricerca, un numero di studiosi che il sistema non riuscirà mai ad assorbire con questi ritmi di assunzione.

Dico subito che buona parte di queste critiche parziali trovano riscontri nei dati che abbiamo. Per quanto mi riguarda, mi limiterò a esporre alcune questioni di natura sistemica sul reclutamento e sulla promozione di carriera nel nostro mondo accademico di cui già avevo avuto modo di convincermi osservando il percorso di riforma e di cui ora arrivano conferme.

Il primo elemento da tener presente per comprendere alcune delle criticità maggiori riguarda le dimensioni elefantiache di tutto il processo. Cinque persone, sorteggiate tra i professori ordinari considerati idonei ai lavori di commissione dopo uno screening altrettanto generalizzato, lungo e farraginoso (anche se assai più indulgente nei numeri degli “esclusi”), hanno dovuto valutare anche mille candidati tra prima e seconda fascia, ciascuno dei quali oltre al proprio curriculum scientifico ha inviato anche le sue 12 migliori pubblicazioni dell’ultimo decennio, preparando quindi un dossier che nelle discipline umanistiche poteva superare le mille pagine. La scelta di applicare senza sconti ed eccezioni criteri quantitativi rigidi, e di individuare un elenco in ogni caso incompleto di elementi di curriculum irrinunciabili senza i quali l’idoneità sarebbe stata negata, era inevitabile in partenza, almeno nei settori disciplinari più grandi. Ma ha condotto all’inesorabile svalutazione di risultati professionali di rilievo semplicemente non considerati nei criteri iniziali magari per mera ignoranza da parte dei commissari, e quindi alla penalizzazione di personale caratterizzato da percorsi di carriera “atipici”, sempre più frequente in un mondo in cui l’incertezza e la pluralità dei ruoli precari sono diventati la cifra esistenziale e di carriera.

Una prima questione, quindi, riguarda la necessità di diluire il processo di conseguimento dell’abilitazione. Un buon esempio da considerare è il modello forse più longevo e più caratteristico di accesso “amministrato” alla professione accademica, quello francese. Qui, allo stato attuale, l’omologo dell’abilitazione, ovvero la certificazione dell’idoneità a partecipare ai vari livelli di reclutamento e promozione accademica, è la qualification, attribuita individualmente sulla base dei giudizi di docenti che hanno esperienza di ricerca in terreni affini a quelli del candidato. Non si impegna nel compito, quindi, un’unica commissione nazionale per centinaia di persone, il che è già di per sé un passo avanti. Ma questo procedimento “diffuso” (che, sul piano numerico, esclude solo pochissimi casi di curriculum apertamente inadeguati, attribuendo l’idoneità a tutti i richiedenti dotati un’esperienza di ricerca minimamente significativa) funziona perché il processo di verifica e di attribuzione dei “titoli” per l’ingresso nei ruoli universitari è graduale, e si fonda sul superamento di scogli statuiti di diritto o (soprattutto) di fatto, che chiamano in causa, sul piano locale prima che in sede di verifica nazionale, un buona fetta della comunità scientifica già selezionata. In particolare, l’apparente “generosità” nell’attribuire le qualifications si regge sul fatto che, per il tradizionale legame tra docenza universitaria e ruoli d’insegnamento al liceo, la massa dei docenti, con poche eccezioni anche tra il personale non francese (soprattutto in discipline meno “canoniche” in cui l’accesso alle competenze necessarie può avvenire per vie diverse dalle tradizionali forma di tirocinio), passi attraverso il duro esame di agrégation, che fissa il numero dei vincitori soprattutto sulla base del fabbisogno effettivo del sistema.

Guardare da vicino il caso francese aiuta a capire ancora meglio quanto questa continuità temporale dei meccanismi di attribuzione dell’idoneità possa essere importante. Presa singolarmente, l’annuale attribuzione delle abilitazioni transalpina non è in alcun modo meno discutibile della nostra, e ad essere sinceri anche il sistema complessivo è stato soggetto a molte critiche (celeberrime quelle di Raymond Aron negli anni cinquanta e sessanta), per l’elevato margine di errore e la lentezza a riparare eventuali torti. Tuttavia, in un paese in cui la prima agrégation data ad anni precedenti alla rivoluzione del 1789, e in cui proprio con i principi rivoluzionari tale pratica è assurta a modello di attribuzione degli incarichi pubblici ai cittadini “senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti” (per citare la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino), questi problemi sono assai meno sentiti. Col trascorrere del tempo, il sistema ha rifinito le proprie pratiche adeguandosi alle richieste sociali e costruendo la lista dei propri criteri e delle proprie competenze irrinunciabili in forma più condivisa. La sua persistenza ha poi finito per far nascere un intero sistema di formazione orientato alla sua soddisfazione, con programmi e istituzioni dedicati a garantire la possibilità di soddisfarne le pretese. Allo stesso modo, sul piano culturale, la necessità ineluttabile di passare per quelle forche caudine ha formato il modo di intendere la professionalità accademica, fino a influire sul senso stesso della comunità scientifica e del suo “spirito di corpo”.

Anche nel nostro caso, con tutta probabilità, una maggiore sicurezza della cadenza annuale delle procedure potrebbe portare a una programmazione più chiara e meno affrettata della partecipazione alle selezioni: da un lato, chi ha un certo tipo di curriculum e di risultati può valutare se e quando presentarsi o ripresentarsi in modo da rispondere meglio alle richieste di massima dei commissari; dall’altro, la rotazione dei selezionatori impegnati fa sì che le distorsioni causate dagli orientamenti di una tornata siano corrette in quelle successive. Allo stesso modo, l’individuazione di passi intermedi caratterizzati da numeri e dimensioni meno massivi per il conseguimento degli attributi necessari renderebbe più “digeribile” nella collettività interessata l’intero sistema.

In effetti l’elemento fondamentale, con cui si va a toccare l’autentico punto dolente della riforma, è quello del maggiore coinvolgimento della comunità scientifica nelle procedure. Tutti i passaggi che ho tratteggiato hanno come comune obiettivo quello di rendere più accettabile il nuovo processo di selezione a un insieme di professionisti che si senta in grado di condividerlo e di parteciparvi. E a questo, in fondo, servirebbero pratiche parzialmente elettive per i valutatori o quantomeno per i comitati che, a monte, decidono i criteri da applicare e valutano i migliori metodi di resa combinata quantitativa e qualitativa dell’impatto scientifico degli studi. È tutto questo che è mancato nella lunga e faticosa lavorazione dell’ASN, portata avanti essenzialmente attraverso sbarramenti puramente quantitativi della produzione scientifica dei possibili collaboratori scientifici al ministero, scelte di evidente sapore politico, orientate a senso unico verso gli studiosi che appena prima si erano espressi pubblicamente a favore delle proposte di riforma generale del comparto universitario in una vera competizione di pamphlet che giustificassero tanto il progetto originario quanto tutti gli smottamenti che l’articolato subiva in sede parlamentare, e sorteggi “secchi”.

Eliminare questo elemento però non è affatto semplice, perché l’intera procedura è stata concepita espressamente per marginalizzare e mortificare la comunità scientifica italiana. Una riforma che ha trovato il suo carburante di consenso in un discorso pubblico volto a scaricare la responsabilità di tutti i problemi dell’università italiana sulla scarsa pulizia morale dei docenti più rappresentativi non ha infatti potuto fare niente di meglio che mettere tra parentesi, in tutto il processo di individuazione dei nuovi esponenti scientifici pronti per la “promozione”, il confronto diretto e non mediato da infingimenti burocratici con chi è depositario della competenza e dell’esperienza professionale richiesta per svolgere il mestiere di ricercatore e di insegnante. E questo dato è tanto più grave, quanto più si nota che in questa voglia di punire esemplarmente i “baroni”, si è deciso di aggredire un sintomo evitando di attaccare le cause delle disfunzioni del sistema concorsuale precedente. Queste ultime, infatti, continuano a godere di ottima salute, e si vedono chiaramente nella filigrana di tutto il percorso di reclutamento.

In primo luogo i singoli esponenti della collettività dei docenti, il cui ruolo di possessori di competenza scientifica è stato pressoché completamente annullato, continuano a svolgere un ruolo decisivo come rappresentanti delle comunità e dei grumi di potere locali, visto che a valle dell’abilitazione le procedure di assunzione vera e propria restano locali, con le sedi che bandiranno ancora un posto per volta. La tendenza, che pare ormai invalsa, a mettere la selezione del vincitore nelle mani di una commissione composta per lo più da docenti esterni a prima vista può riparare ai danni che avrebbe causato l’assoluta libertà dei dipartimenti di prendere qualunque abilitato volessero. Ma si tratta, almeno in parte, di un’illusione ottica. Sul piano delle disponibilità finanziarie, che guidano l’operato degli atenei senza grandi possibilità di sgarrare, il piano di assunzione per gli associati è stato fatto in parallelo alla riforma espressamente per blandire i ricercatori di ruolo, ed è stato quindi creato senza toccare le prassi contabili introdotte con la cosiddetta “autonomia”: detto in parole povere e senza scendere in tecnicismi, una sede può procedere alla chiamata anche se ha un budget adeguato a scoprire la differenza di stipendio tra un associato e un ricercatore già in ruolo. Visto che i bilanci dei diversi atenei sono distinti e le risorse non trasferibili in forma diretta da una parte all’altra, nominare regolarmente associati che non siano già assunti presso le stesse università potrebbe diventare insostenibile. Di conseguenza gran parte dei nuovi posti avranno già dei destinatari sicuri per ragioni strutturali.

Questo apre la pagina, ancor più inquietante, di chi ha ottenuto l’abilitazione pur essendo ancora precario. I rappresentanti di questa particolare condizione possono partecipare a tutti i concorsi per la seconda fascia, a patto però di perdere praticamente sempre, pena uno stress al sistema di finanziamento delle sedi che li assumono difficilmente assorbibile. D’altro canto, teoricamente ad essi è aperta la strada dei posti da ricercatore a tempo determinato con possibile stabilizzazione finale (la cosiddetta, molto impropriamente, tenure track), che ora stanno uscendo col contagocce. Anche qui però il potere di direzione delle sedi accademiche si fa sentire: da un lato la commissione è assai più chiaramente “interna”, con docenti selezionati dal Senato accademico; dall’altro possono accedere alla selezione anche studiosi non ancora abilitati, visto che il passaggio per ricevere la conferma in ruolo è proprio l’acquisizione in tempo utile dell’abilitazione nazionale. Di conseguenza, dipartimenti e atenei potranno continuare a lavorare con la logica di assunzione sedimentatasi nel tempo, per cui l’ammissione in ruolo è una sanatoria per chi nel corso degli anni ha fatto la “gavetta” in sede, indipendentemente dalle sue effettive capacità professionali in un quadro comparativo sul “mercato” nazionale e internazionale. L’unico deterrente a tutto ciò, al di là delle procedure di valutazione della qualità degli istituti di ricerca, la cui efficacia nelle modalità impostate “all’italiana” si è mostrata quasi nulla e che sono state delegittimate da un uso che le ha orientate quasi solo alla giustificazione ex post dei tagli di spesa, sarebbe un mantenimento di standard sufficientemente elevati nell’attribuzione delle idoneità, così da “impallinare” gli studiosi mediocri a cui è stato affidato un posto in tenure track e portare, fallimento dopo fallimento, i dipartimenti a più miti consigli. È però difficile che tutto ciò si verifichi quando la legittimità delle pratiche di abilitazione è, come abbiamo visto, ancora tutta da costruire, e avrebbe bisogno di tempo e di ulteriori ritocchi progressivi per andare a regime. Allo stato attuale delle cose, rispetto all’indispensabile indebolimento della discrezionalità delle sedi locali attraverso una loro sempre più forte responsabilizzazione nelle scelte, è molto più probabile e sicuramente meno faticoso un compromesso al ribasso, che garantisca l’abilitazione a chi ne ha bisogno man mano che essa diventa indispensabile per la conferma in servizio.

Quest’ultimo esito appare plausibile anche tenendo conto del fatto che l’assegnazione delle abilitazioni ha iniziato a esercitarsi su un terreno istituzionale che era minato fin dall’inizio. Le varie commissioni, infatti, sono rappresentative dei diversi settori disciplinari. Questi ultimi sono stati recentemente rinnovati in vista della riforma, con un processo che avrebbe dovuto essere di rimedio all’eccessiva parcellizzazione precedente, per cui quasi ogni titolatura di cattedra era separata dal resto e quindi in mano a pochi cultori, verso un accorpamento sulla base di una maggiore rispondenza all’omogeneità di metodi e di contenuto tra le varie ricerche. L’idea era insomma quella di scardinare il playground in cui i rappresentanti locali della comunità scientifica contrattavano gli accordi e gli equilibri facendosi rappresentanti presso i loro “pari” degli interessi delle sedi coniugandoli con quelli corporativi. Il percorso è però in gran parte fallito. Alcuni settori ormai di scarsa rilevanza sono stati, sì, diluiti in altri più ampi e complessivi. In casi ancor più numerosi, però, ci sono state conservazioni piuttosto sorprendenti basate su differenziazioni e specificità metodologiche fragili, e molto più concretamente su un intenso lavoro di lobbying da parte dei rappresentanti di settore vicini al ministero, o accorpamenti in settori disciplinari Frankenstein che uniscono pezzi molto distanti pur di non farsi inglobare nei campi di studio e di ricerca in cui razionalmente dovrebbero finire. Probabilmente, col senno di poi, sarebbe stato più pratico e conveniente procedere con un indebolimento del potere istituzionale dei settori disciplinari, riservando ad essi compiti esclusivi di natura scientifica e intellettuale. Invece, col loro mantenimento in piedi in questi termini si sono preservate in gran parte le vecchie logiche. Ed ecco allora che, specie nelle aree di dimensioni più contenute, la scarsa afferenza al campo di studi specifico rappresentato dalla commissione (o semplicemente, il che è ancora più grave, lo “sconfinamento” in uno o più lavori, che caso mai dovrebbe essere titolo di merito) è stato usato come una clava per limitare il campo degli abilitati a figure più o meno direttamente riconducibili alla comunità di studiosi interessata alla “gestione”  del settore, eventualmente scaricando su ambiti disciplinari più generici gli esclusi.

Questo, insomma, il quadro di alcuni problemi aperti che le prime evidenze dell’Abilitazione scientifica nazionale stanno mostrando. Tirando le somme, quali possono essere le tendenze per un miglioramento della situazione? Come ho già scritto altrove, io non so se l’introduzione in Italia di un sistema ancora più rigidamente amministrato rispetto a quello precedente sia la strada migliore. Anche il caso francese dal paragone col quale sono partito, e che è sicuramente molto più legittimato per tutti gli attori che se ne interessano, si scontra quotidianamente con l’impossibilità di giustificare teoricamente il “merito” e di individuarlo una volta per tutte attraverso pratiche valutative incontrovertibili. Tuttavia, ora che questa strada si è imboccata può essere effettivamente una scelta di buon senso continuare a percorrerla, anche per evitare il continuo rimescolamento di procedure che col nuovo millennio sono state cambiate in media ogni 3 anni facendo perdere ogni prevedibilità e ogni possibilità di controllo ai percorsi di formazione e di affermazione professionale. In questo caso, però occorre intervenire con una progressiva messa in efficienza che verta essenzialmente su tre capisaldi:

  • Distinzione netta e definitiva tra reclutamento (per il quale occorre prendere coscienza del fatto che le necessità di docenti per l’universalizzazione dell’esperienza didattica post secondaria necessaria a confermare l’Italia nel novero dei paesi avanzati sono evidenti, e che gli investimenti sono quindi indispensabili) e promozione delle carriere;
  • Diluizione nel tempo delle procedure di selezione e di attribuzione dei titoli abilitanti, anche con la responsabilizzazione delle sedi locali, chiamate con maggiore frequenza a render conto su una comparazione a livello complessivo delle loro scelte di assunzione ai primi gradi della carriera accademica;
  • Coinvolgimento più significativo della comunità scientifica nella definizione degli standard operativi e delle caratteristiche professionali irrinunciabili, evitando che i suoi esponenti “rientrino dalla finestra” come rappresentanti di interessi opachi e non immediatamente giustificabili sul piano culturale.

L'autore: Andrea Mariuzzo

Piemontese per nascita e per inclinazione spirituale, ricercatore (precario) alla Scuola Normale di Pisa dopo esperienze in Francia, Inghilterra e USA, attualmente si occupa di storia delle istituzioni universitarie. Gestisce il blog "A mente fredda" su "Il Calibro".
Tutti gli articoli di Andrea Mariuzzo →