Regionali: voti reali o “bandierine”?

Pubblicato il 28 Febbraio 2010 alle 23:56 Autore: Livio Ricciardelli
Regionali: voti reali o “bandierine”?

“Una testa, un voto” recita un famoso motto divenuto simbolo e spiegazione stessa della Rivoluzione Francese. Il principio, che oggi diamo per scontato, fu invece qualcosa di assolutamente rivoluzionario a suo tempo contro l’allora dominante “voto per ordini” che vedeva schierarsi nobiltà e clero contro il terzo stato (vincenti sempre per 2 a 1).

Passano i secoli e l’abitudine di votare si fa sempre più frequente ed irrinunciabile (nelle democrazie, almeno). Capita così che si vota per le elezioni regionali del 2010 e, anche questa volta, Silvio Berlusconi cerca di volgere a suo favore una possibile sconfitta elettorale.

Dopo averle definite “un voto amministrativo”, vedendo i sondaggi non favorevoli lo ha definito test nazionale “contro quelli che vogliono lo stato di polizia” (con precisazione di Fini che ha giustamente dichiarato che in uno stato di polizia la percentuale di evasione fiscale è minore). E va bene.

Però dire che queste elezioni regionali conteranno in termini di voti assoluti anziché in termini di regioni vinte o perse non va assolutamente bene. Per quanto possa apparire come un segnale positivo per l’opposizione, pronta a scorgere un lieve segno di preoccupazione del premier.

Uscito dalla batosta dalle “colossali proporzioni” del 12-2 nel 2005, Silvio Berlusconi non ritenne necessario dimettersi. Non ricordava che per aver perso le regionali 8 a 6 Massimo D’Alema lasciò Palazzo Chigi. Ma ancor peggio Berlusconi non volle trarre conseguenze politiche dal quel voto elettorale (“Avoja a dire che non è stato un referendum su Silvio Berlusconi” esclamava l’allora “spina nel fianco” del centrodestra Bruno Tabacci) e anzi si recava a sorpresa a Ballarò accanto ad un costernato Alemanno, mentre Rutelli e D’Alema avevano facile gioco su di lui e qualche leghista, a “Porta a Porta”, rivendicava una fantomatica affermazione del centrodestra (!).

Le dimissioni dei membri del governo dell’Udc e del Nuovo Psi furono l’unica ragione che portò Berlusconi ad formare un nuovo governo (il Berlusconi ter) con eminenti statisti a suo fianco tra cui l’attuale candidato Pdl in Campania Stefano Caldoro presso l’importantissimo ministero dell’attuazione del programma con ufficio a Largo Chigi. Per non parlare poi dello sconfitto Francesco Storace che, subito dopo aver perso, fu ripescato come ministro della Sanità.

Lo scenario del 2005 è  radicalmente diverso dal 2010, anche per il solo fatto che cinque anni fa correva l’ultimo anno della legislatura, mentre adesso ne mancano tre.

Senza dubbio quindi il centrosinistra non riuscirà a conservare delle regioni che riuscì a strappare al centrodestra nel 2005. Con questo copione quindi siamo già  pronti ad immaginare uno scenario di analisi del voto in qualche salotto televisivo, col Castelli di turno che ricorda che il centrodestra è avanzato rispetto al 2005 (difficile vincere meno di due regioni!) e che magari la Lega ha superato gli alleati del Pdl al nord.

Allora perché preoccuparsi, Cavaliere? Se i suoi plenipotenziari hanno già preparato il copione da recitare nella peggiore ipotesi possibile, perché buttare lì nel dibattito politico il tema dei voti reali anteposti alle caselle vinte o perse?

La preoccupazione di Berlusconi infatti non è tanto dovuta agli scandali di questi giorni, specialmente quelli legati al suo “uomo del fare” Bertolaso, ma ad un trend elettorale che forse qualcuno gli ha spiegato: la maggior forza, da un punto di vista strutturale, del centrosinistra sul centrodestra.

Per quanto il Pdl abbia dimostrato, in occasione delle elezioni amministrative del 2009, un rispettabile radicamento territoriale, è evidente che dal punto di vista regionale la partita appare in molte e importanti regioni ancora in bilico.

Oltre alla Puglia (dove l’Udc corre da sola) e  al Piemonte, il Lazio è una regione storicamente in bilico che sta vivendo in queste ore uno scenario alquanto imprevedibile che potrebbe portare ad un’esclusione della lista del Popolo della Libertà nel collegio di Roma e della sua provincia.

Ma nelle altre regioni? Il Termometro Politico, che quotidianamente monitora la situazione nelle regioni, ben definisce con la propria cartina nella home page lo stato delle cose: per quanto il Pd appaia come un partito ancora pieno di difficoltà ha molte più “roccaforti”: Emilia-Romagna, Marche, Toscana, Umbria e Basilicata vengono date per certe al centro-sinistra. E c’è da crederci. Nonostante qualche sondaggio dia per esempio il presidente Errani vincente con un calo elettorale rispetto al 2005, nessuno si sognerebbe di attribuire all’Emilia-Romagna lo status di “regione incerta” (avete capito perché l’’uomo di Arcore ci tiene tanto a contare i voti reali a scapito delle regioni vinte?) e lo stesso si può dire nelle Marche, in Toscana e in Basilicata. L’Umbria appare meno certa, forse anche a causa di un certo autolesionismo espresso in sede di primarie da parte del Pd. Ma è uno scenario alquanto fantapolitico vedere questa  regione governata dalla pasionaria berlusconiana Fiammetta Modena!

Le uniche due regioni date per sicure al centro-destra sono le solite Lombardia e Veneto. Certo, il Pdl ha buone chance il Campania e in Calabria, ma obiettivamente, insieme a Lazio, Puglia e Piemonte, non me la sento di inserire la Liguria tra le regioni dove la partita è già chiusa.

Sul fatto poi che Veneto e Lombardia sono “già del centro-destra” sarebbe anche giusto sottolineare come Zaia e Formigoni siano due candidati sì fedeli al governo, ma con una propria storia, una propria rete e delle proprie aspirazioni.

Insomma: non sono dei “berluscones” al 100%. Non sono Fiammetta Modena.

 

Blog dell’autore: lasino.ilcannocchiale.it

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L'autore: Livio Ricciardelli

Nato a Roma, laureato in Scienze Politiche presso l'Università Roma Tre e giornalista pubblicista. Da sempre vero e proprio drogato di politica, cura per Termometro Politico la rubrica “Settimana Politica”, in cui fa il punto dello stato dei rapporti tra le forze in campo, cercando di cogliere il grande dilemma del nostro tempo: dove va la politica. Su Twitter è @RichardDaley
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