Trattato di Dublino: cosa stabilisce, chi e perché vuole cambiarlo

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Trattato di Dublino: cosa stabilisce, chi e perché vuole cambiarlo

L’Europa è a uno snodo decisivo sulla questione migranti. In queste ore i ministri dell’Interno dell’Eurozona stanno per discutere a Lussemburgo la proposta di riforma del Trattato di Dublino; il testo stabilisce i meccanismi di ripartizione dell’accoglienza dei rifugiati tra gli stati Ue.

Un banco però che sembra essere saltato, dopo la presa di posizione della Germania. Infatti, Berlino ha annunciato il suo “no” a seguito delle chiusure arrivate dai paesi di Visegrad (Estonia; Lettonia; Lituania; Ungheria; Polonia; Slovacchia; Repubblica Ceca) e dal blocco del Sud (Italia; Portogallo; Spagna), oltre a quelle di Svezia ed Austria.

Un iter iniziato nel 2016 e che ha visto già l’ok dell’Europarlamento. A questo punto, dunque, il Consiglio Europeo in programma a fine giugno, da cui si attendeva il via libera definitivo all’accordo sui migranti, rischia di trasformarsi in una resa dei conti finale tra la linea della responsabilità e quella della solidarietà. E, dietro l’angolo, incombe l’inizio della presidenza austriaca, paese tutt’altro che morbido sul tema, in piena sintonia con l’asse dei governi sovranisti.

Trattato di Dublino: cosa stabilisce

Il Trattato, o Regolamento, di Dublino del 2013, adottato come ‘terzo aggiornamento’ del testo del 2003, stabilisce quali criteri adottare per l’esame di una domanda di protezione internazionale. Tradotto: a quale paese tocca prendere in carico un richiedente asilo; ossia colui che fugge da guerre o persecuzioni politiche. L’attuale meccanismo prevede che sia lo stato di prima accoglienza ad occuparsene.

Ovvio che, con l’aumento vertiginoso dei flussi migratori negli ultimi anni (anche se nel 2018 grazie agli accordi bilaterali con alcuni paesi del Nordafrica gli sbarchi sono diminuiti del 77% rispetto al 2017), un sistema così predisposto sia andato a tutto svantaggio di Grecia e l’Italia; paesi che, di fatto, sono le “frontiere” marittime dell’intera Ue. Da qui, la necessità di una riforma, spinta dei venti sovranisti.

Trattato di Dublino: le proposte di riforma

Il primo passo, nel 2016. La base su cui viene impostata la riforma è il principio della ‘condivisione equa’; un compromesso tra ‘responsabilità’ (quanti rifugiati vanno accolti per ciascun paese) e ‘solidarietà’ (aiuti da fornire agli stati di frontiera e le sanzioni per chi non accetta le regole). Un modo per evitare che tutto (o quasi) ricada sulle spalle dei membri Ue più esposti alla problematica (Italia; Spagna; Grecia; Cipro; Malta).

Questo testo iniziale stabilisce un criterio oggettivo; la quota di richiedenti asilo accettabili da un paese deve essere proporzionata sia al PIL che alla popolazione, al 50% di incidenza ciascuno. Se il rapporto supera il 150% della capienza così calcolata, ogni nuova richiesta andrà reindirizzata agli altri partner europei. Per chi si rifiuta, scatta una salatissima penale da 250mila euro per ogni migrante ‘respinto’.

Un meccanismo che però è stato fortemente contestato dai governi ‘sovranisti’ ed euroscettici. La Bulgaria, allora, ha messo sul tavolo una nuova bozza, con sbilanciamento verso la ‘responsabilità’, incontrando stavolta il ‘no’ secco da parte degli Stati del Sud.

Il cambio proposto da Sofia ha visto, infatti, lievitare la percentuale della ‘capienza’, dal 150% in rapporto a popolazione e Pil, al 160% (ma soltanto su base volontaria); con obbligatorietà di redistribuzione dei rifugiati verso altri paesi soltanto a quota 180%. Un quadro a cui va aggiunta anche una sostanziosa riduzione delle penali previste dal testo del 2016; dai 250mila euro a migrante rifiutato, ai 30mila euro. In più, allo Stato di entrata, al di là della ripartizione, toccherebbe comunque garantire la presa in carico delle persone per almeno 10 anni.

Giancarlo Manzi