Regno Unito: aggiornamenti sulla riforma elettorale

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Il 6 maggio scorso si sono tenute le elezioni parlamentari nel Regno Unito attraverso le quali si è proceduto al rinnovo della Camera dei Comuni, ovvero la camera bassa del parlamento britannico attualmente composta da 650 membri.

Per la gioia dei più ferventi “proporzionalisti” tali consultazioni non hanno prodotto una maggioranza chiara (non accadeva dal 1974) e nessun partito ha raggiunto i fatidici 326 seggi corrispondenti al numero minimo necessario per formare un governo che non sia di minoranza.

 

L’impasse, come sappiamo, è stata risolta attraverso una governo di coalizione tra “Tories” (conservatori) e “LibDems” (liberal-democratici) che ha portato David Cameron, leader del partito conservatore, a ricoprire la carica di Primo Ministro ed a spostare la sua residenza al numero 10 di Downing Street. Tale accordo, tuttavia, non è stato indolore. I liberal-democratici, infatti, hanno chiesto e ottenuto come “conditio sine qua non” per la partecipazione al governo la modifica del sistema elettorale, da effettuarsi nella presente legislatura attraverso un procedimento che prevede prima l’approvazione parlamentare per poi procedere con un referendum in via “confermativa”.

A quasi due mesi dalle elezioni siamo andati a vedere come sta procedendo il dibattito sulla riforma elettorale ed abbiamo preso in considerazione le diverse ipostesi che potrebbero portare alla sostituzione dello storico “First-Past-the-Post” (FPTP, il sistema attualmente in vigore).

Prima di procedere è opportuno ricordare anche sinteticamente le ragioni per le quali i LibDem tengono così tanto alla modifica del presente sistema elettorale. Come sappiamo nel Regno Unito vige un sistema maggioritario uninominale di tipo “plurality”. Semplicemente il territorio britannico è diviso in 650 collegi all’interno dei quali competono i diversi candidati e risulta eletto colui che ottiene all’interno di ogni singolo collegio anche un voto in più dell’avversario, e ciò indipendentemente dal numero di voti ottenuti, vale a dire che non è richiesta la maggioranza assoluta per ottenere un seggio.

Per definizione questo è un sistema che tende a sovra-rappresentare i due partiti maggiori mentre sottorappresenta fortemente i partiti minori, a meno che questi non abbiano consensi fortemente concentrati in una data zona territoriale – e non è questo il caso dei liberal-democratici, che presentano un consenso piuttosto diffuso. Per capire l’ostilità di questi ultimi a tale sistema di voto non occorre però spendere ulteriori parole. Basta analizzare il rapporto tra voti e seggi ottenuto dai tre principali partiti nelle ultime consultazioni:

I liberal-democratici dunque vogliono un cambiamento. E dai dati si può evincere anche perché lo chiedano con tale insistenza. Per la loro operatività all’interno del sistema politico britannico la riforma elettorale è un fattore cruciale, e molto importante a questi fini sarà un aspetto decisivo che molti sottovalutano: la scelta della data nella quale tenere il referendum che, in caso di esito positivo, sanzionerà la fine di un’era. Quella del Regno Unito inteso come patria del maggioritario uninominale.

Il partito liberal-democratico, guidato dal suo giovane leader Nick Clegg, sembrava in un primo momento orientato perché si tenesse la consultazione ai primi di ottobre. Tale data è stata però presto abbandonata per paura che il voto si potesse trasformare in un voto di protesta contro il governo, che proprio pochi giorni fa ha annunciato imponenti tagli alla spesa pubblica ed un aumento delle tasse.

In seguito a ciò, la data alla quale mirano gli eredi dei “whighs” e sulla quale cercano di trovare il consenso di Cameron è adesso il 5 maggio 2011. In quella data infatti circa 12 milioni di elettori si recheranno alle urne per rinnovare il Parlamento scozzese, gallese, e circa 280 consigli locali. Il “fattore affluenza” infatti non è da sottovalutare, tanto più se consideriamo quello che sta succedendo all’interno del partito conservatore.

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Il primo ministro Cameron, infatti, sta cercando con fatica di fronteggiare una rivolta interna capitanata dal deputato conservatore Daniel Kawczinsky, attuale leader di una fronda che si oppone alla modifica del sistema elettorale e difende il FPTP. Kawczinsky ha difatti minacciato di voler presentare nella fase parlamentare un emendamento che porti il referendum ad essere valido soltanto se a votare vada il 40% degli aventi diritto. Un’idea che senza dubbio fa tremare i liberali.

Tale emendamento, che non gode della fiducia di tutto il partito conservatore, potrebbe però trovare una sponda importante in alcuni deputati laburisti, anch’essi in buona parte contrari all’abbandono del FPTP. Tra l’altro un emendamento di questo tipo gode di un precedente più che importante. Nel 1979 fu grazie a tale clausola che fallì il piano per la devolution scozzese, quando a votare furono soltanto il 33% degli aventi diritto nonostante i “sì” raggiungessero il 52% dei voti validi.

Appurata la volontà dei liberal-democratici di intraprendere il cambiamento resta da vedere verso quale cambiamento abbiano deciso di orientarsi. Ovvero resta da vedere su quale sistema elettorale i “LibDems” hanno deciso di giocare la loro scommessa. Il sistema al quale mirano da tempo, com’è noto, è il Voto Alternativo, che permette di ordinare i candidati in base alle preferenze dell’elettore e richiede la maggioranza assoluta per aggiudicarsi il seggio. I candidati per essere eletti devono essere non solo i più apprezzati come prima scelta ma devono essere anche graditi come “second best”. Tale sistema viene attualmente utilizzato per eleggere il Parlamento australiano, il presidente irlandese ed i parlamenti delle isole Fiji e Papa Nuova Guinea.

Tuttavia per molti la scelta di puntare su questo sistema elettorale si è rivelata sbagliata. Alcuni esponenti del mondo accademico infatti fanno notare che sarebbe stato meglio orientarsi su un sistema più semplice come l’ “Approval Voting” dove il funzionamento è identico al First-past-the-Post soltanto che vi è la possibilità di esprimere quanti voti si vuole, teoricamente anche per tutti i candidati presenti nel collegio. Ad essere eletto sarebbe sempre il candidato più “gradito”.

Altri invece, come il Prof. Donn M.Kurtz (Università della Luisiana) sostengono la necessità di introdurre finalmente un sistema “misto” maggioritario-proporzionale con collegi e voto di lista anche nel Regno Unito, ed altri ancora puntano decisamente sul “Voto singolo trasferibile” così come utilizzato per il Parlamento irlandese.

Il grafico che mostriamo qua sotto ci evidenzia quello che sarebbe accaduto se alle ultime elezioni si fosse votato con il “Voto Alternativo” e, come seconda ipotesi, se invece di fosse votato con il sistema del “Voto singolo trasferibile”.

Il risultato pare chiaro: utilizzando il sistema su cui puntano liberal-democratici, l’incremento rispetto al sistema attuale sarebbe stato di soli 22 seggi. Diverso il caso se si fosse votato con il Voto singolo trasferibile: l’incremento sarebbe stato addirittura superiore ai 100 seggi.

Alla luce di questi dati viene spontaneo avanzare una riflessione. Cioè chiedersi se i liberal-democratici non stiano forse bruciando un’occasione per loro storica, quella di diventare la forza determinante del sistema politico britannico per gli anni a venire. Paradossalmente, con molti sistemi elettorali lo diverrebbero quasi sicuramente, con quello da loro scelto probabilmente no.