Il grande paradosso di giornalisti VS. paese reale

Il grande paradosso di giornalisti VS. paese reale

Quando ho lavorato per la cronaca bianca al Gazzettino e a La Nuova, ho imparato di più sul paese e sulla gente in un anno di quanto non avessi fatto in tutta la vita. Oggi molti stimaticolleghi giovanissimi, o che sono partiti già dal web, quando escono nel mondo reale per intervistare o fare domande ne restano allibiti.

Oggi un tenerissimo collega ha scritto un post dove raccontava di essersi recato in un condominio che aveva avuto un principio d’incendio. È la classica seminotizia per cui le redazioni manda(va)no el bocia; vai lì, fai due domande giusto per avere un virgolettato, scatti una foto e torni alla base. Sarai le 200 battute di fianco alla pubblicità di un detersivo.

Il mio incauto collega è stato diligente, ma si è fatto largo tra la folla e ha posto la domanda a uno dei presenti in pubblico.

L’intervistato

L’intervistato s’è immediatamente messo a urlare, sbracciandosi e chiedendo agli amici e ai parenti di trattenerlo che sennò faceva un massacro, vai via che ti metto le mani addosso, giornalai, fate schifo e tutta la trafila. Capirei fosse andato da un padre col figlio morto a chiedergli “cosa prova in questo momento”, ma erano davanti a due scintille e un po’ di fumo, mentre la domanda era tipo “scusi, lei abita qui?”.

Il fatto è che la gente comune, se viene messa al centro dell’attenzione da qualcuno di autorevole tipo giornalisti o telecamere, impazzisce. Non sul serio, ma fa finta. Essendo di psicologia scimmiesca, la prima cosa che gli interessa è far vedere al branco che lui è un duro e un puro. Quindi urlerà, mostrerà aggressività, farà capire di essere pericoloso e soprattutto di non volersi macchiare con i servi del regime, perché lui è più in alto.

E il branco lo osserva e ammira per questo

L’ho imparato con il metodo prova-sbaglia.

Ricordo ancora a Jesolo, vado a intervistare i gestori dei locali per sapere qual è la situazione dell’estate. In uno dei locali più sfigati e squallidi mi faccio indicare dalla cameriera il gestore, è seduto a bere con due amici. Lo raggiungo, mi qualifico come giornalista e…

«Cosa?! Giornalista?! Vai via! Non dico niente!»

“Niente, capito?!”

Tento di spiegarmi, ma quello è irremovibile. Perché non gli interessavo io, gli interessava mostrare agli amici che lui “non parla coi giornalisti”, frase che nel paese reale incute grande rispetto. Umiliato e incazzato torno a Mestre fantasticando su qualche tipo di vendetta, racconto tutto al mio caporedattore (ciao Mauri) e lui sogghigna: «Non devi mai prenderli in pubbico» dice «Perché se c’è gente vogliono fare i fighi».

Incasso e porto a casa.
Com’è sempre stato, con Mauri.

Tre mesi dopo, per un articolo diverso, vado nello stesso locale ma aspetto il tizio sia solo. Lo prendo in disparte e, con aria complice, gli chiedo quasi sottovoce “lei mi sembra uno che sa come vanno le cose davvero”.

“Sei un giornalista?”

Dopo due ore mi aveva offerto tre mojiti, aveva assunto sostanze illecite davanti ai miei occhi e continuava a farneticare di assessori, con aneddoti su di lui e sui colleghi, sperticandosi in dettagli sull’illegalità diffusa, trucchetti, manovre. Non perché io fossi un Barzini o un Montanelli, ma perché ero l’unico con cui poteva fare il figo.

Questo per dire che sì, la nostra madrepatria ha problemi d’informazione, ma anche il paese reale ci mette – fin dai miei tempi, almeno – il carico da 90.