L’identità nazionale esiste, e non c’entra niente con guerre e dittature

E se per una volta provassimo a ragionare senza bias e tifoserie su una questione che ci riguarda tutti?

L’identità nazionale esiste, e non c’entra niente con guerre e dittature

Da quando sul New York Times è uscito il farneticante video di Fischer, il quale sostiene che l’identità nazionale è un costrutto sociale recente, nei media l’idea è piaciuta tantissimo e si sono moltiplicati articoli e video in cui quest’idea viene abbracciata con grande afflato. “Cos’è tipicamente nordico? Assolutamente niente” e giù a elencare oggetti e tradizioni tipiche che di nazionale “non hanno nulla”.

In Italia l’intellighenzia se n’è innamorata, ed è un fiorire di articoli che spiegano come in realtà il caffè venga da lì, il pomodoro da là, e che di “tipicamente italiano” in realtà non c’è niente. Insomma, l’identità nazionale non esiste: anzi, è addirittura dannosa e contribuisce a creare guerre, razzismi e dittature.

E io che credevo guerre e dittature fossero fatte dalle persone per denaro.

I motivi “”nobili”” delle guerre sono cazzate che si raccontano per giustificare atti di appropriazione indebita. La Germania non fece la guerra per preservare la razza ariana; fece la guerra perché le condizioni con cui aveva trattato la pace nella prima erano un capestro e uno psicopatico prese la disperazione e la trasformò in follia omicida. La Germania non diede contro agli ebrei perché li credeva una razza inferiore, ma per rapinarli senza che potessero ribellarsi, assassinarli senza che potessero chiedere risarcimenti e senza che gli altri cittadini tedeschi li difendessero per quello che erano; altri cittadini tedeschi.

Non bisogna guardare quello che la gente dice, ma quello che FA.

Le crociate, tanto amate negli ambienti di estrema destra, erano squadre di banditi che andavano a rapinare, stuprare e grassare popoli lontani “in nome di Dio”, che fatalità parlava per bocca di uno che poi esigeva percentuali monstre sui bottini. Le guerre sono rapine. Lo sono sempre state, cambia solo la favoletta da raccontare a quelli che vanno a farla, o ai loro parenti quando tornano in una scatola da scarpe. L’ironia crudele è che gli uomini che fanno la guerra spesso sono migliori di quelli che la dichiarano.

Attaccare l’identità nazionale per evitare le dittature è come censurare De Sade per evitare i femminicidi.

Anche perché dire che non esiste l’identità nazionale è delirante, specie adducendo come motivazione i flussi migratori o dei materiali. L’identità di un popolo non risiede nelle materie prime o nel colore dei suoi abitanti, ma nel modo (e nello stile) che ha di rielaborarli e farli suoi nel corso dei secoli. Tutti hanno la pietra, ma un popolo pensa di costruirci le piramidi, un altro dei castelli, un altro di farci un acquedotto.

Il caffè viene dall’Etiopia, ma italiani, americani e turchi lo fanno in tre modi diversi. L’identità nazionale viene dalla somma delle comunità e dei loro rispettivi patrimoni culturali, che hanno preso le contaminazioni esterne, le hanno inglobate, rielaborate e fatte loro a modo loro.

Oppure le hanno rigettate.

Scenic picture-postcard view of the city of Napoli (Naples) with famous Mount Vesuvius in the background in golden evening light at sunset, Campania, Italy

Se non esiste identità nazionale, provate ad ascoltare Wagner e poi Puccini.

A volte le nostre tradizioni sono nate per caso, come il caffè diventato un rito dopo la vittoria del Piave. Altre volte è stato voluto, come per i Lupercalia romani che comprendevano ragazzi seminudi, frustate, vino e orge. Aboliti dal Papa, la popolazione li rivuole e vengono riproposti in chiave più casta e cattolica fino a diventare San Valentino, una scusa come un’altra per costringere il tuo fidanzato a vestirsi decentemente, regalarti un mazzo di fiori e portarti fuori a cena.

A tutti i ventenni – o peggio: ai giornalisti che vogliono fare o farsi i ventenni – piace raccontarsi questa favoletta del cittadino del mondo perché in erasmus a Londra sorseggiano birra belga e ci provano con una spagnola dagli occhi a mandorla. È così cosmopolita, magico, etnico, meraviglioso, se non fosse che dopo sei mesi c’hanno la tachicardia e il bisogno fisico di sentire le cicale, l’odore di mirto, rosmarino e fichi marci dietro casa di zu’ Peppe che bestemmia giocando a carte al bar del paesino.

Li trovi su Facebook a scrivere in italiano che “gli manca casa” (ma non erano cittadini del mondo?), vanno e vengono dall’Italia una volta al mese o diventano macchiette tragicomiche come El gaucho; un italiano che italiano non è più, e che si strofina sulla gamba di italiani come un gatto affamato.

Ma tutto questo, naturalmente, è il problema in apparenza.

Il sempiterno giuochetto de “oggi sei più fascista tu, domani sono più fascista io” che imperversa nelle colonne dei giornali o nella sezione commenti, maschera – anche discretamente – il vero motivo per cui l’identità, nazionale o meno che sia, oggi è un nemico da sradicare. Qual è non lo so, ma posso fare due conti: togli alle persone l’identità nazionale e perderanno il senso di comunità. Togli il senso di comunità e avrai miliardi di tizi soli e sparpagliati che interagiscono solo tramite mezzi controllabili con individui monitorabili e si disabituano a raggrupparsi, dibattere dal vivo, fare compromessi e compattarsi.

Chissà mai a cosa potrebbe servire.
O chi potrebbe approfittarne.