Intercettazioni: in nome della privacy si ammazza la stampa

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Meno di un anno fa l’opposizione, la magistratura e la stampa indussero uno sciopero contro il ddl sulle intercettazioni, presentato nel 2008 dal guardasigilli Angelino Alfano e subito stoppato dal Quirinale. Da quel giorno qualche punto del disegno di legge è stato modificato, ma il fronte oppositivo è più agguerrito di prima.

Dodici emendamenti, due governativi e dieci del relatore al Senato Roberto Centaro, sono stati presentati pochi giorni fa all’esame della commissione giustizia di Palazzo Madama.

 

Teoricamente le modifiche avrebbero dovuto adattare il ddl alle richieste di Napolitano e dei critici, giungendo a un punto di accordo fra le parti. In pratica, per affermare il diritto della privacy, sancito come inviolabile dall’art.15 della Costituzione, la proposta di legge ha accresciuto il malcontento.

 

Prima di entrare nel merito degli emendamenti sulle intercettazioni è bene chiarire quest’ultimo punto. È vero che per la Costituzione il diritto alla segretezza è inviolabile. Lo ha ricordato lo stesso Alfano. Peccato, però, che il ministro abbia tralasciato il secondo comma, secondo cui l’autorità giudiziaria può limitare tale diritto «con le garanzie stabilite dalla legge». È proprio grazie a questa sezione dell’articolo che è stato possibile per la magistratura scoprire e mettere fine a reati gravissimi. Se il testo di oggi diventasse legge, per i criminali sarebbe molto più facile non farsi scoprire. E se anche venissero scoperti, i cittadini non ne verrebbero a conoscenza, o almeno non come è stato fino ad oggi.

Per poter essere autorizzati a intercettare, infatti, bisogna che sussistano almeno tre elementi: il primo è che ci siano «gravi indizi di reato». Da notare come questa dicitura, che ha sostituito la vecchia («evidenti indizi di colpevolezza»), ha trovato il favore di alcuni esponenti dell’opposizione tra cui Anna Finocchiaro; il secondo elemento è che bisogna essere autorizzati non solo dal gip, ma anche dal tribunale; l’ultimo è che l’utenza dell’intercettazione può essere intestata solo all’indagato o al massimo a una terza persona già emersa da indagini precedenti.

 

Al di là delle autorizzazioni, dando un’occhiata generale al testo, è evidente come molte delle modifiche apportate al disegno di legge vadano in una direzione ben precisa: l’inasprimento delle pene a carico dei giornalisti.

 

Se il ddl presentato in Senato diventasse legge, gli operatori dell’informazione non potrebbero pubblicare alcun tipo di intercettazione. Non uno stralcio, non un riassunto: nulla. Almeno fino all’udienza preliminare o al rinvio a giudizio dell’intercettato.

 

In caso contrario le pene parlano chiaro:

 

 

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C’è poi una disposizione che non è passata inosservata, ed è quella che prevede l’autorizzazione delle Camere se l’indagato è intercettato mentre conversa con un parlamentare. Un emendamento scritto su misura per la casta politica. Il rischio è che per privilegiare i parlamentari si finisce per fare un favore ai delinquenti, specie quelli più grossi. Ad esempio, sarà molto più semplice per un mafioso telefonare al suo referente politico di fiducia senza correre alcun rischio. Non fosse altro perché le Camere si guarderebbero bene dal concedere l’autorizzazione.

 

In conclusione, è vero che i giornalisti hanno abusato dello strumento delle intercettazioni per pubblicare intere conversazioni spesso senza alcun elemento di reato al proprio interno, ma è altrettanto vero che non venire a conoscenza di casi come quelli di Bertolaso, delle varie scalate alle banche, della D’Addario, di Provenzano, di Calciopoli sarebbe un gravissimo danno per il cittadino. E un colpo letale per la stampa.

Giuseppe Ceglia