Dal lodo Schifani al lodo Alfano “costituzionale”

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Pressante si è fatta in questi giorni la discussione sul c.d. lodo Alfano “costituzionalizzato” ma, per capire meglio l’essenza del dibattito, sarà bene fare qualche passo indietro.

 

Era il 21 giugno 2003 quando fu pubblicata la legge n. 140 del 2003, nota anche come “lodo Schifani”, originariamente proposta dal senatore della Margherita Antonio Maccanico al fine di evitare che nel semestre di presidenza italiana del Consiglio europeo potesse essere lesa l’immagine internazionale dell’Italia con la condanna in un processo penale del suo Presidente del Consiglio (il riferimento è al processo SME). Nella formulazione dell’art. 1, il lodo Schifani recitava: “non possono essere sottoposti a processi penali, per qualsiasi reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione fino alla cessazione delle medesime, il Presidente della Repubblica, il Presidente del Senato, il Presidente della Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio dei Ministri, il Presidente della Corte Costituzionale”.

Successivamente, nel gennaio del 2004, la Corte costituzionale intervenne con la sentenza n. 24 del 2004 e dichiarò l’illegittimità costituzionale del summenzionato art. 1 per violazione dei principi di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di obbligatorietà dell’azione penale. Sebbene una temporanea sospensione dei processi penali nei confronti del Presidente del Consiglio sia prevista in diversi ordinamenti democratici, il lodo Schifani fu bocciato dalla Consulta in virtù di tre ordini di ragioni: anzitutto l’automatismo della sospensione del processo, stabilito per legge, che lede il diritto degli imputati a esercitare il diritto di difesa soggiacendo alle accuse; in secondo luogo, si rileva che la sospensione non può essere sine die, ovvero implicante il riferimento ad una data indeterminata, con il “rischio della reiterabilità degli incarichi e comunque della possibilità di investitura in altro”. È stato infatti sentenziato che “questa Corte aveva già ritenuto che una stasi del processo per un tempo indefinito e indeterminabili vulnerasse il diritto di azione e di difesa (sent. n. 354 del 1996) e che la possibilità di reiterare la sospensione ledesse il bene costituzionale dell’efficienza del processo (sent. 353 del 1996)”. Di conseguenza, la Corte costituzionale ha stabilito che, se la circostanza in merito alla reiterabilità della sospensione non può essere esclusa, se ne deve dedurre che, usufruendo della sospensione del processo, non si può accedere ad un’altra “alta carica”, o comunque il processo non può essere di nuovo sospeso.

 

Nel giugno 2008 il Governo Berlusconi IV espresse la volontà di riproporre un nuovo disegno di legge riguardante l’immunità alle alte cariche (stavolta solo le prime quattro, facendo cioè rientrare il Presidente del Consiglio ma escludendo il Presidente della Corte Costituzionale): fu denominato “lodo Alfano” dal nome del proponente, il ministro della Giustizia. Così, nel luglio 2008 entrò in vigore il lodo Alfano (legge n. 124 del 2008) “con l’obiettivo di tutelare l’esigenza assoluta della continuità e regolarità dell’esercizio delle più alte funzioni pubbliche”. A parere del ministro, il nuovo provvedimento si differenziava dal lodo Schifani, che riprendeva in termini di contenuti, perché compatibile con quanto indicato nella sentenza della Corte che aveva in precedenza dichiarato l’illegittimità costituzionale della parte inerente tematiche comuni a quelle trattate nella nuova legge. Le modifiche apportate da questo “lodo” al precedente erano diverse, tra cui il termine di legislatura per la sospensione dei processi e la possibilità di proseguire con le azioni civili di risarcimento.

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Inutile dire che il giudizio politico sul lodo Alfano fu quantomeno “influenzato” dalla coincidenza della rapida approvazione di questo disegno legge con l’imminente conclusione del processo a Milano sulla corruzione in atti giudiziari dell’avvocato David Mills, che vedeva come coimputato il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, e dall’incidenza di esso anche su altri due processi che vedevano imputato Berlusconi (quello per diffamazione aggravata dall’uso del mezzo televisivo in merito alle relazioni tra le cosiddette Cooperative Rosse e la camorra; e quello relativo alla compravendita di diritti televisivi). Così, dall’opposizione il senatore Stefano Ceccanti del PD, durante la discussione al Senato prima del voto definitivo, sottolineò soprattutto il fatto che la legge entrava in conflitto con l’art. 3 della Costituzione, che stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, e con l’art. 1 che sancisce il diritto degli eletti dal popolo di esercitare la funzione governativa nei limiti previsti dalla costituzione stessa, ossia col principio costituzionale secondo cui “democrazia non è semplice regola di maggioranza” ed il potere si esercita nei limiti disposti dalla Carta costituzionale; ma il lodo Alfano fu accolto positivamente dalla maggioranza di centrodestra, in particolar modo dal Presidente del Consiglio che definì “il lodo di cui si parla il minimo che una democrazia possa fare a difesa della propria libertà”, e inoltre “ necessario in un sistema giudiziario come il nostro, in cui operano alcuni magistrati che, invece di limitarsi ad applicare la legge, attribuiscono a se stessi e al loro ruolo un preteso compito etico”.

 

E ancora, già nel luglio del 2008 un documento intitolato “In difesa della Costituzione” veniva sottoscritto da più di cento studiosi di diritto costituzionale, tra i quali gli ex presidenti della Corte costituzionale Valerio Onida, Gustavo Zagrebelsky e Leopoldo Elia, e nel gennaio 2009 è stato depositato presso la Corte di Cassazione il testo di un quesito referendario che chiede l’abrogazione della legge n. 124 del 2008; ma dopo la presentazione del ricorso alla Consulta per la richiesta di un pronunciamento sulla legittimità della legge, sul versante opposto l’avvocatura dello Stato depositò una memoria in cui difendeva la ratio del lodo Alfano. La norma veniva definita “non solo legittima, ma addirittura dovuta”, perché in grado di coordinare due interessi: quello “personale dell’imputato a difendersi in giudizio” e “quello generale, oltre che personale, all’esercizio efficiente delle funzioni pubbliche” delle quattro alte cariche protette. A sostegno di questa tesi si schierò anche l’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, secondo il quale il lodo non costituiva un’immunità, e quindi come tale non sarebbe stata in contraddizione con il già citato art. 3 della Costituzione, ma solamente una garanzia necessaria a salvaguardare il “diritto di difesa” di un “cittadino che si trova ad essere imputato e, contemporaneamente, a rivestire un’alta carica dello Stato”.

 

Infine, il 7 ottobre 2009 il lodo Alfano veniva giudicato incostituzionale dalla Corte Costituzionale (9 voti contro 6) per violazione nel merito e nel metodo rispettivamente degli artt. 3 e 138 della Costituzione, con la motivazione che fosse necessaria una legge costituzionale per introdurre le immunità previste dal lodo. Questo giudizio è stato accolto dal centrodestra come un affronto al Presidente del Consiglio e alla democrazia italiana, mentre la sinistra si è detta favorevole al giudizio della Consulta ed il Presidente della Repubblica si è schierato a difesa della Costituzione accettando, senza commenti, il giudizio della Corte costituzionale.

 

(nella prossima puntata: il lodo Alfano “costituzionale”)