Irpinia, il terremoto che cambiò l’Italia

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A pochi mesi dall’anniversario dei 150 anni dell’unità d’Italia, il trentennale del sisma in Irpinia è significativo.

Il 23 novembre 1980 cambiò per sempre il modo di sentirci italiani. Prima di questa funesta data non c’erano mai stati eventi che avessero contribuito a una spaccatura orizzontale così netta della nostra penisola. C’erano stati anni di grandi divisioni sociali, ma erano contrasti politici, ideologici, quasi mai geografici. Quasi mai si è messo il punto sulla diversità di vita che si conduceva al Nord rispetto al Sud, e viceversa.

Eppure il 23 novembre di trent’anni fa la moltitudine di volontari che dal settentrione – e non solo – scesero in Irpinia, intasando involontariamente tutte le strade e le vie di comunicazione (ancora non esisteva un organo di coordinamento come la Protezione Civile), si accorsero subito delle immani differenze tra la propria terra e quella del meridione.

Improvvisamente gli “angeli del terremoto” si resero conto dell’esistenza sotto la capitale di una popolazione di connazionali che viveva di stenti, la cui unica ricchezza era rappresentata dal maiale che consentiva di sfamare una famiglia per sei mesi. Non c’erano banche, industrie e persino strade degne di essere chiamate in tal modo. La mancanza di vie di comunicazione fu uno degli elementi che contribuì a far salire il computo dei morti a quello definitivo: 2914, cifra simile a quella causata dal terremoto più disastroso della storia che si verificò in Cile nel 1960 (magnitudo 9,5, tre punti in più di quello del 1980). A nulla valsero gli appelli televisivi di un disperato e indignato Pertini.

Non appena si cominciò a sentire il profumo delle lire statali, stanziate per la ricostruzione, i settentrionali si diedero il cambio. Furono rispediti a casa i giovani volontari, osteggiati dalle istituzioni locali con l’accusa di costituire un intralcio ai soccorsi, e scese in Irpinia un esercito di imprenditori e costruttori del Nord.

In questo preciso istante ha inizio quello che passerà alla storia come il più grande spreco di soldi pubblici. Ad oggi la stima ha superato i 60.000 miliardi di lire. La disgrazia della popolazione offre un piatto ricco di occasioni a chi è al potere e a chi con esso è strettamente collegato. Camorra compresa. Non ci sarà più spazio per le lacrime, non una parola per chi ha perso famiglia, casa, lavoro, tutto. La speculazione e gli scandali sovrastano il dramma dell’individuo.

Vengono costruite in Irpinia centinaia di fabbriche con contributi statali. Promettono lavoro, e in cambio modificano per sempre la geografia di Campania e Basilicata, scavando gallerie, costruendo superstrade mostruose, e trasformando vaste zone collinari e montuose in ampie valli. Tutto avviene in un silenzio drammatico. Nessuno che si lamenti. Il meccanismo delle clientele è ben oliato.

Il familismo amorale, che ancora oggi attanaglia il Sud, è una delle cause dello scempio. Il padre di famiglia, pur di vedere il figlio sistemato in una fabbrica nuova di zecca (e ce ne sono tante), si rivolge ai tanti politici feudatari democristiani, che negli anni ottanta governano l’Italia, oltre alla Campania.

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Presidente del Consiglio, ministri, sottosegretari, capi di partito, dirigenti Rai: sono quasi tutti campani, qualcuno lucano, in maggioranza meridionali. Non tutti democristiani, però. Anche liberali, comunisti, socialisti, direttamente o indirettamente, si sono rafforzati politicamente grazie al terremoto.

E così, tra un favore e un voto di scambio, il clientelismo ha dominato la scena meridionale per tutti gli anni del dopo sisma. Da una parte i politici, in cerca di voti e potere, dall’altra la popolazione, disposta a tutto pur di migliorare la propria condizione precaria. Due illegalità parallele unite dal silenzio di comodo. Un silenzio che non si può giustificare, perché ha creato disparità vergognose tra chi si è costruito tre case con piscina e chi è ancora oggi costretto ad abitare in case di legno se non nei container, soffocato dall’amianto.

Non c’è stato, in Irpinia, il senso della misura. La quantità indefinibile di denaro che sgorgò dalla fonte statale (senza dimenticare gli ingenti aiuti internazionali) ha generato mostri. Le cifre, inizialmente accettabili, nel giro di pochi mesi divennero spropositate. I comuni colpiti dal sisma e meritevoli di aiuti economici per la ricostruzione salirono da 36 a 687. Ogni sindaco e amministratore locale, anche a centinaia di chilometri dall’epicentro, si sentì in diritto di partecipare alla grande abbuffata senza averne il minimo diritto, senza che nel proprio paese fosse venuta giù neanche una tegola. E così la dispersione di denaro fece sì che ce ne fosse troppo poco per i paesi in cui serviva davvero.

Quello che più rattrista è che tutto si è risolto in una bolla di sapone: pochi responsabili sono finiti in carcere, molti sono fuggiti all’estero, la maggioranza (soprattutto politici) ha atteso che la giustizia facesse il suo (lentissimo) corso aspettando che i propri processi finissero prescritti.

Dicevamo che gli scandali sovrastano il dramma dell’individuo; ma sovrastano e annientano anche il lavoro dei sindaci che hanno lavorato bene. Una di questi è Rosanna Repole, primo cittadino di Sant’Angelo dei Lombardi, la cui opera di ricostruzione fu più volte citata e lodata dai maggiori quotidiani italiani e stranieri, dal “Giornale” di Montanelli alla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”. Di quelli che hanno lavorato bene non ha memoria nessuno.

Si ha memoria, invece, della creazione di decine e decine di istituti di credito come la Banca Popolare dell’Irpinia (“la banca di De Mita”, la definì Paolo Liguori), che ingurgitarono i soldi stanziati in eccesso per la ricostruzione, conseguendo enormi profitti in meno di un lustro.

Si ha memoria delle aziende del Nord, che hanno usufruito delle sproporzionate sovvenzioni statali per industrializzare a costo zero una zona prevalentemente agricola. Molte delle fabbriche che venivano costruite in Irpinia non hanno mai visto l’apertura o un giorno di lavoro dei propri operai. Fallite senza mai essere nate. Un numero interminabile di progetti scriteriati, appalti, subappalti, con la collaborazione della Camorra e dei politici occasionisti, secondo la definizione di Isaia Sales.

Colate di cemento hanno ricoperto la verde Irpinia in nome degli interessi. Solo la metà dei fondi stanziati ha preso la giusta via, il resto della torta è andato ai politici, ai tecnici della ricostruzione, agli imprenditori del Nord e quelli locali. E alla Camorra niente? Certo che sì.

Il terremoto ha cambiato gli italiani, e anche i camorristi. Negli anni ’80 è gradualmente e inesorabilmente fallita l’idea di camorra di Raffele Cutolo, per fare spazio alle giovani menti “manageriali” dei nuovi clan, preparati a sfruttare al meglio le nuove opportunità che il sisma offriva. I clan Bardellino, Alfieri, Nuvoletta, Gionta, divennero in poco tempo delle vere e proprie società finanziarie capaci di controllare l’economia di un’intera regione e zittire chiunque intaccasse i propri interessi e denunciasse le proprie malefatte. Come Giancarlo Siani, giornalista del “Mattino” ucciso dal Sistema perché aveva osato scrivere che l’arresto del boss Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuv­o­letta per evitare un’insosteni­bile guerra di camorra con il clan di Bardellino.

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Il sisma del 1980, per la maggioranza dell’opinione pubblica, è stato soldi, cemento, lacrime, sangue, raggiri, truffe, promesse e ruberie che hanno alimentato l’odio dei settentrionali verso i meridionali. Anche grazie al terremoto e alle sue degenerazioni, Umberto Bossi ha costruito la Lega Nord. Sul populismo antimeridionale, e sulla contrapposizione tra Settentrione (lontano dalle poltrone di Roma, onesto, lavoratore, che paga le tasse, indipendente e autonomo) e Mezzogiorno (presente in tutte le poltrone, furbo, scansafatiche, sanguisuga statale, dipendente e parassita), il Senatur ha con il tempo soppiantato la Dc padana e ne ha preso il posto. Perdendo la memoria che gli conveniva perdere. Permettendo ai meravigliosi e solidali “angeli del terremoto” di diventare secessionisti.

Dimenticando di quando le migliori aziende del Nord, dalla Parmalat alla Zuegg hanno “colonizzato” l’Irpinia, contribuito a prosciugare le casse statali e perpetrato uno scempio che a trent’anni dal sisma è bene tener presente. Come è bene non dimenticare quei 2.914 corpi esanimi – donne, bambini, anziani, uomini, con un nome, un cognome e una vita spezzata – su cui hanno marciato tutti, senza un briciolo di rispetto.

Giuseppe Ceglia