Ecco perché lo chiamavano Alessandro il grande

A quanto pare ce ne possiamo permettere uno così ogni circa 5000 anni.

Ecco perché lo chiamavano Alessandro il grande

La vita di Alessandro Magno è una specie di remake del De Bello gallico, ma riesce nella titanica impresa di aumentarne l’epica. Il Macedone è considerato dagli storici come uno dei cinque uomini più importanti della nostra specie, e c’è un motivo. O meglio, ce ne sono a manciate; episodi e aneddoti che rendono bene di che scorza era fatto e come sia riuscito a conquistare se non il mondo, buona parte.

Il primo che mi viene in mente è quello del 330 a.C., quando Alessandro ingaggiò battaglia contro i Mardi, un popolo assai bellicoso di nomadi predoni che viveva dalle parti dell’Iran, anche se allora si chiamava Ircania. Durante uno dei tanti scontri, i predoni riuscirono a rubare Bucefalo, il cavallo di Alessandro.

Appena lui se ne accorse se la prese parecchio non solo perché lo accompagnava da tutta la vita (assieme al suo cane Peritas), ma perché lui era stato l’unico capace di domare una bestia che tutti consideravano indomabile. Quindi prende un interprete e fa arrivare ai predoni un messaggio bello chiaro: o gli ridanno Bucefalo, oppure avrebbe ucciso ogni singola persona presente in Ircania.

Alessandro, Bucefalo e Peritas

Ignoro cosa si provi a ricevere una minaccia da Alessandro Magno in persona, ma i Mardi dimostrando grande buonsenso optarono per restituire il cavallo assieme ad altri regali. Alessandro risparmiò la vita di chi lo conduceva, ma doveva comunque punire l’affronto. Devastò il territorio dei Mardi finché loro si arresero, ma non toccò né donne, né anziani, né bambini.

Un altro valido è del 325 a.C., quando conduceva il suo esercito nel deserto.

L’aveva pensata bene ma fatta male: transitare tra l’India e il golfo Persico sperava di raggiungere le regioni centrali dell’Impero con facilità, ma non aveva calcolato la temperatura e la distanza effettiva. In poco tempo lui e i soldati si trovarono a corto di cibo e di acqua, con i piedi ustionati dalla sabbia bollente e le armi da tirarsi dietro. I soldati più deboli cominciarono a morire e sarebbe stato un buon momento per colpi di testa e ribellioni, ma Alessandro era intelligente.

Ad Alessandro viene mostrato il sepolcro di Achille. Sì, quell’Achille.

Invece di camminare a cavallo camminava a piedi come loro, così da dimostrare di soffrire le stesse cose e di avere a disposizione le stesse risorse. Quando un gruppo di esploratori torna di corsa riferendo di avere trovato acqua in una grotta poco profonda, come prova versano acqua in un elmo e glie lo porgono. Lui ringrazia, poi la getta via senza berla, come fosse roba di poco conto.

Con un semplice gesto di rinuncia dimostra agli uomini non solo che l’acqua c’è davvero, non solo che ce n’è tanta ed è abbastanza vicina, ma che pur soffrendo come loro, avendo sete come loro, lui sa resistere.

Questo aneddoto, anche se incredibile, viene raccontato da Arriano, Plutarco, Polieno, Curzio Rufo e Frontino. Arriano aggiunge una considerazione: quando gli uomini vedono il gesto «l’intero esercito riprese coraggio al punto da far credere che l’acqua versata da Alessandro fosse stata bevuta da tutti». Una lezione di capacità di comando gigantesca.

Come sia possibile una storia tanto epica riuscisse a sembrarmi noiosa è uno dei grandi misteri della mia adolescenza.