Gli interessi italiani nella crisi libica

Dietro l’atteggiamento timido del Governo italiano nei confronti di Gheddafi, potrebbero esserci imponenti interessi economici

Le esternazioni del Governo sull’inevitabile congelamento dei beni libici sono significative: si tratta di un dato politico, nel senso dell’ennesimo distinguo italiano rispetto alle sempre più rapide risoluzioni intraprese da paesi alleati, ma anche economico, la cui evoluzione è sempre più definita dal forte ed incisivo settore bancario. È noto, infatti, che il maggior gruppo bancario italiano ed europeo, Unicredit S.p.A., abbia notevoli interessi che si intersecano con le vicende economiche e politiche della Libia. Potrebbe allora essere rilevante render note, se ancora non lo sono, le vicende che hanno riguardato recentemente l’attività di Alessandro Profumo, fino a settembre 2010 amministratore delegato del gruppo Unicredit, nel potenziamento della ripartizione azionaria di fondi finanziari riconducibili al leader libico Gheddafi.

Siamo nel 2008 e l’Italia si rende protagonista di un significativo avvicinamento agli affari libici. Vi sono, da una parte, nella stretta sfera politica, i rapporti decisamente amichevoli che intercorrono tra Berlusconi e Gheddafi; dall’altra, nel settore bancario, un amministratore delegato di un imponente gruppo bancario quotato in borsa, il quale concorre all’ascesa delle quote libiche tra gli azionisti Unicredit. Caso abbastanza ambiguo e, a nostro avviso, certamente degno di approfondimenti. Partiamo dalla seconda delle due circostanze: Profumo, approfittando di un momento negativo per il gruppo, sembra lasciar correre l’avanzata libica senza preoccupazioni, al punto tale da non ritenere opportuno darne avviso né alla Banca di Italia né al Ministro dell’economia. Accade dunque che, nonostante un articolo dello statuto di Unicredit preveda l’impossibilità per ciascun azionista di possedere titoli superiori al 5%, la Libia riesca ad accrescere la propria potenza acquistando e ripartendo i titoli tra la Lia (Lybian Investment Authority), un fondo sovrano a cui vanno azioni per il 2,59%, e la Cenral Bank of Lybia, che detiene il 4,6%. E a rendere più intricata la vicenda, quanto a interessi in gioco, c’è il fatto che il Presidente della banca centrale libica, Fahrat Bengdara, è anche vicepresidente di Unicredit e consigliere del fondo sovrano libico Lia.

Per quanto riguarda invece gli aspetti più “visibilmente” politici, poco tempo prima (il 30 agosto 2008) Berlusconi e Gheddafi firmavano a Bengasi un accordo di amicizia, partenariato e cooperazione, divenuto poi legge nel febbraio successivo. Il trattato consta di due parti, una relativa alla chiusura dei contenziosi aperti con il popolo libico, e l’altra attinente invece al partenariato. Si prevede quindi che l’Italia, a titolo di risarcimento dato il passato coloniale, si impegni a realizzare in Libia infrastrutture per un importo pari a 250 milioni di dollari in venti anni, ricevendo “in compenso”, da parte della Libia, l’abrogazione di tutti i provvedimenti che impongono vincoli alla piena realizzazione delle imprese italiane in loco. Avendo ottenuto come primaria contropartita, da parte del leader libico, la piena e sicura collaborazione in materia di “contenimento” del fenomeno dell’immigrazione, tema tanto caro al fedele alleato leghista, l’Italia del IV Governo Berlusconi si è offerta ancora di più e ha scelto di investire in terra africana con la costruzione di edifici abitativi, l’assegnazione di borse di studio per studenti, il  ripristino del pagamento delle pensioni di guerra ai titolari libici e la restituzione alla Libia di manoscritti e reperti archeologici trasferiti in Italia da quei territori in epoca coloniale. E queste sono solo alcune delle disposizioni contenute nel Trattato tese a stringere in maniera ancor più significativa i rapporti italo-libici, già ufficializzati nel tempo da atti bilaterali: in sostanza, oltre ad esserci stata una “emergenza immigrazione” sottaciuta, l’Italia dell’ultimo biennio ha guadagnato un regime fiscale privilegiato, che ha permesso alle imprese nostrane di godere in Libia di condizioni economiche particolarmente vantaggiose.

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Di certo all’epoca dei fatti, quando la Libia si apprestava a divenire il maggior azionista di Unicredit, nessuno avrebbe mai immaginato dell’ondata rivoluzionaria che solo pochi mesi dopo ha colpito gli Stati del Nord Africa. E non è difficile immaginare il “nervosismo interno” al più grande gruppo bancario, necessariamente vigile nell’osservare l’andamento delle questioni libiche. Arriva infatti, il 27 febbraio 2011, la risoluzione 1970 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che impone il blocco dei beni di Gheddafi, della famiglia e della cerchia ristretta dei fedelissimi e l’embargo sull’import/export di armi. Provvedimento inevitabilmente adottato anche dall’Unione europea, in attesa che i Paesi membri si adoperino per un rapido recepimento della normativa. Ed è qui che l’Italia inizia a fare i conti con una serie di interessi da proteggere. A differenza degli Stati Uniti, dove Obama immediatamente interpreta in maniera estensiva l’insieme dei beni appartenenti a Gheddafi, ampliandolo fino a ricomprendere gli stessi fondi sovrani, l’Italia si trova inspiegabilmente incerta di fronte alla difficile delimitazione tra beni direttamente riconducibili alla persona di Gheddafi (e per questo sotto congelamento) e fondi invece appartenenti allo Stato libico, salvi da queste prime direttive. Dunque, forse proprio a causa degli importanti interessi libici nell’economia nostrana e degli altrettanto importanti interessi politici del Governo italiano in Libia, quest’ultimo, pur concordando in toto con le posizioni europee, tiene a precisare l’importanza e la necessità di distinguere in maniera netta i beni di Gheddafi da quelli del popolo libico: ritiene quindi opportuno ricomprendere in questi ultimi le azioni possedute in Unicredit dal fondo Lia e dalla banca centrale libica. Difficile posizione: è possibile immaginare che Gheddafi, al potere da più di quaranta anni, noto per le dubbie doti democratiche, sia effettivamente così lontano da quei fondi? È pertanto corretto affermare che esiste una distinzione netta tra i beni riconducibili in via diretta alla persona di Gheddafi e quei beni che, al contrario, possono legittimamente essere ricompresi nell’insieme dei beni nazionali, e pertanto non propriamente disponibili nelle mani del dittatore? O è semplicemente un modo per prendere tempo, tentare l’impossibile, salvare quegli interessi che altrimenti potrebbero essere schiacciati da un terremoto aziendale, in cui gli altri azionisti Unicredit dovrebbero in qualche modo far fronte, anche a costo di un aumento di capitali?

È bene sottolineare qui la vera natura dei fondi sovrani. Essi altro non sono che fondi di investimento di proprietà governativa che, soprattutto nel caso della Libia e degli altri Paesi produttori di petrolio, consentono di investire ingenti somme liquide, principalmente per isolare il bilancio statale dalle fluttuazioni dei prezzi delle materie prime. Allo stesso tempo, i fondi sovrani comportano altri aspetti: uno relativo alla trasparenza, in quanto per la maggior parte di essi non sono pubblicate informazioni sulla reale consistenza e sulle logiche di destinazione; l’altro rappresentato dal fatto che il proprietario ultimo è uno Stato, istituzione sorretta da un potere politico, e che non sempre potrebbe agire secondo logiche di mercato o nel rispetto dei canoni di democraticità degli Stati moderni. Arriviamo dunque, secondo quanto detto, a capire come sia giunta l’Europa, e solo successivamente l’Italia, a considerare indispensabile il congelamento delle quote libiche frutto di investimento di fondi sovrani. Si legge, infatti, sulla Gazzetta Ue dell’10 marzo 2011, che le cinque entità finanziarie libiche (la Banca centrale, il Fondo Lia, il Lybian Arab Investment Portfolio, la Libyan Foreign Bank e il Libyan Housing and Investment Board) sono a pieno titolo entità sotto il controllo di Muhammar Gheddafi e la sua famiglia, e rappresentano dunque una fonte potenziale di finanziamento per il suo regime. È il caso dunque dei titoli presenti in Unicredit.

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Infine, solo negli ultimi giorni, il gruppo bancario è arrivato alla decisione ultima di bloccare quel 7% delle azioni in mano a Gheddafi. Secondo le note rilasciate, il provvedimento riguarderebbe i soli diritti amministrativi (il diritto di voto) e quelli patrimoniali (il pagamento dei dividendi), senza impatti sulla governance. Ma, al di là dei problemi di gestione aziendale, cosa comporta questa misura? Che “rischio” introduce nella nostra economia, come degli altri partner commerciali del Medio Oriente, ferma restando l’indiscutibile “obbligatorietà” di un provvedimento siffatto? Di fondo, il congelamento delle quote libiche si giustifica con l’intento di impedire che qualcuno, probabilmente in appoggio al Governo di Gheddafi, possa muovere il patrimonio vendendo le quote e ripartendo i proventi tra differenti conti, personali o aziendali che siano. E se questa considerazione appare pacifica, diversamente, non essendoci ancora un governo legittimo a Tripoli, non vi è certezza su chi possa disporre delle partecipazioni in questione. Ad ogni modo, è possibile ipotizzare che una decisione simile, per quanto legittima, abbia il potere di alterare i rapporti con gli altri partner commerciali i quali, attraverso i fondi sovrani, e spesso approfittando delle incerte e fluttuanti situazioni finanziarie in cui da tempo versano le economie occidentali, investono e si arricchiscono nelle economie dei paesi occidentali. Potrebbe facilmente accadere che questa soluzione crei un effetto di trascinamento tale da portare alcuni partner commerciali a considerare investimenti più sicuri, longevi, soprattutto sull’onda del crescente malcontento popolare degli Stati del medio Oriente: potrebbe pertanto verificarsi una realtà nella quale alcuni Paesi intendono dirottare le proprie ricchezze verso altre destinazioni, verso i Paesi emergenti e addirittura verso il proprio mercato domestico. Ipotesi che di certo non gioverebbe agli equilibri già abbastanza incerti della nostra economia.

Rimane da chiedersi come verranno effettivamente gestiti i titoli dei fondi sovrani, se e a quale condizione verranno sbloccati. In presenza di un Governo “amico”? E se sì, “fino a che punto” potrebbe essere considerata una grave ingerenza all’interno di quei Paesi con cui, probabilmente in maniera poco ponderata, abbiamo tessuto i rapporti esteri più consolidati negli ultimi anni? Quella del Governo italiano, relativamente all’estensione delle entità libiche a cui imporre restrizioni finanziarie, appare essere una decisione sofferta, inevitabilmente presa sotto l’occhio vigile dell’Unione europea. Vedremo in futuro come risolvere i nodi di un trattato di amicizia che, appena rinnovato, oggi crea in tutti un palese imbarazzo, al pensiero dei baciamano al dittatore del XXI secolo, più che mai estraneo a ogni riferimento culturale ai valori della democrazia costituzionale.

(scritto con Elisa Rinelli)