Libia, l’Italia in mezzo al guado

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La difficile posizione dell’Italia sul piano internazionale (e interno) sul caso Libia

Da giorni ormai è iniziata quella che alcuni chiamano “guerra in Libia” e che altri preferiscono definire “intervento umanitario”. Sebbene siano poche le certezze a riguardo, alcune considerazioni possono già farsi, sia secondo una prospettiva internazionale che di politica interna.

Dal punto di vista del diritto internazionale, la missione in Libia sembra trascendere la prassi delle operazioni autorizzate dall’Onu sotto il Capitolo VII per almeno due motivi. Anzitutto perché la risoluzione Onu 1973, che autorizza l’uso della forza (ed in particolare la no-fly zone), non ha attribuito la leadership militare a uno Stato membro dell’organizzazione, come non è mai accaduto nelle principali crisi degli ultimi vent’anni. In secondo luogo, perché l’ipotetica soluzione di una responsabilità di “comando e controllo” della NATO affiancata da una autorità separata che include nazioni arabe e paesi non facenti parte della NATO, è “senza precedenti”, come ha sostenuto il Segretario alla Difesa americano Robert Gates.

Inoltre, sul piano internazionale, l’intervento occidentale in Libia aggiunge un elemento di incertezza sul futuro della crisi libica e sugli stessi scenari della rivolta araba nel suo complesso. Se è possibile evidenziare alcuni fattori strutturali che hanno portato alla rivolta – quali il mutamento dei vincoli strategici, l’esplosione delle opportunità d’informazione e interazione, la recessione economica che ha esasperato la crisi di legittimità dei regimi autoritari, ecc – l’intervento esterno da parte dell’Occidente in quella che è stata definita la “primavera araba” potrebbe comportare conseguenze tra loro contrastanti: alimentare o inibire la rivolta. In tal senso, l’opportunità dell’operazione “Odissea all’alba” divide profondamente gli analisti: da un lato, la dinamica del “contagio” è valutata come sufficiente nel lungo periodo a influenzare positivamente gli sviluppi dei regimi non democratici, e quindi si reputa controproducente l’intervento armato; dall’altro, l’intervento esterno è considerato inevitabile nell’“emergenza democratica” del mondo arabo. In sostanza, si tratta di valutare quanto l’intervento della comunità internazionale sia percepito come atto impositivo di un cambio di regime volto a proteggere la popolazione, a dare speranza di successo regionale a tutta la rivolta araba e a smentire i predicatori del “conflitto di civiltà”; e quanto, all’opposto, possa essere vissuto come ennesima invasione da parte di un Occidente neo-coloniale, in definitiva più interessato al petrolio che al successo della rivolta, e pertanto già preso dall’idea di uno smembramento della Libia, che ne permetterebbe un più facile controllo territoriale, divisa in Cirenaica e Tripolitania.

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A tale riguardo, non sembra del tutto disinteressato il ruolo di primo piano svolto nelle vicende di questi ultimi giorni dalla Francia di Sarkozy. La “fuga in avanti” nella crisi libica, dopo 8 anni di distanza dal veto posto da Parigi all’azione unilaterale americana in Iraq, sembra infatti strettamente legata a ragioni di politica interna: anzitutto le elezioni generali programmate per il 2012 ed il calo della popolarità di Sarkozy nei confronti dei rivali nella corsa all’Eliseo. Dopo aver vinto nel 2007 conquistando l’intellighenzia di sinistra ma anche il voto di destra, Sarkozy, minacciato da destra sia da Marine Le Pen che da Dominque de Villepin, necessita oggi di un rilancio d’immagine. In secondo luogo, se una volta le relazioni con il Colonnello erano buone al punto da consentire la vendita di aerei Mirage da parte francese, sono seguite fasi più tese, in particolare per la lunga guerra in Ciad e per la rivalità delle politiche di influenza in Nord Africa e nella regione del Sahara. Dunque, “sconfitta” diplomaticamente rispetto alle vicende di Egitto e Tunisia e attualmente alla presidenza del G20 e del G8, la Francia sembra voler riaffermare la propria influenza economica e politica nel Nord Africa, ponte per il controllo dell’Africa centrale: Sarkozy ha infatti tentato di incentivare la creazione dell’Unione per il Mediterraneo, co-presieduta insieme all’ex presidente egiziano Mubarak e subito avversata da Gheddafi, e ha pure sostenuto il governo di Ben Ali nei primi momenti della rivolta.

Passando ora al piano più strettamente interno, è noto ormai che i rapporti Italia-Libia si siano fatti sempre più stretti dopo la firma del “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione”, punto di approdo di un lungo lavoro politico-diplomatico nonché atto di riconoscimento della responsabilità storica dell’Italia verso la Libia in virtù del passato coloniale. Tale atto internazionale vorrebbe pure costituire un rilevante contributo all’apertura della società civile libica e al dialogo con il mondo arabo e una risposta alle sfide poste dalla governance mediterranea, sotto i profili congiunti della sicurezza interna delle nazioni, della pacifica convivenza dei popoli, della sicurezza energetica, dei movimenti migratori e della tutela dei beni culturali. Il punto è che fino ad oggi, la materia su cui le parti in gioco sembrano aver collaborato maggiormente è quella relativa al fenomeno dell’immigrazione, soprattutto al fine di prevenire i flussi migratori clandestini nei e dai paesi di origine. E ci si domanda in che termini, allora, visto che l’immigrazione clandestina è notoriamente controllata da organizzazioni criminali, che gestiscono dalle coste libiche gli imbarchi di migliaia di migranti provenienti da varie aree del continente africano (in prevalenza da regioni e Paesi interessati da conflitti armati o oppressi da regimi autoritari quali il Ciad e il Darfur), con drammatici costi in termini di perdite di vite umane a causa delle condizioni di viaggio e dei casi non infrequenti di abbandono in mare. A fronte della persistenza e della gravità, anche sul piano umanitario, di questi fenomeni, e nonostante il trattato di amicizia e lo stretto legame tra Berlusconi e Gheddafi, non è stata infatti mai attivata alcuna forma sistematica di controllo sugli imbarchi e di monitoraggio satellitare delle rotte marine utilizzate per il traffico di migranti.

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Altro aspetto delle vicende italo-libiche prebelliche e degno di attenzione, a maggior ragione oggi che le forze alleate hanno deciso di “soccorrere” i ribelli contro il regime, è quello relativo alla vendita di 11mila tra pistole, carabine e fucili semiautomatici della ditta Beretta, tutte armi esportate dall’Italia via Malta, senza che ciò fosse segnalato all’Unione europea. Questa inquietante denuncia è contenuta in un comunicato congiunto della Rete Italiana per il Disarmo e della Tavola della Pace, diffuso il 9 marzo, nel quale le due organizzazioni definiscono “grave e irresponsabile” la condotta dei ministri degli Esteri, Franco Frattini, e degli Interni, Roberto Maroni, e stigmatizzano le “reiterate falsità” del ministro della Difesa Ignazio La Russa sul tema delle forniture militari italiane alla Libia. Nel comunicato delle due associazioni si legge che “al di là del singolare ‘errore di trascrizione’ dei funzionari maltesi, che avevano inizialmente riportato un carico di oltre 79 milioni di euro invece che di 7,9 milioni di euro di armi, abbiamo ampiamente accertato che l’Italia nel 2009 ha esportato in Libia oltre 11mila armi di tipo semiautomatico, molto simili a quelle militari e comunque estremamente letali, senza darne alcuna comunicazione né al Parlamento né all’Unione Europea”. È bene allora ricordare che la Posizione Comune dell’Unione europea sulle esportazioni di armamenti (2008/944/PESC) stabilisce che i governi, prima di ogni esportazione di armi, devono accertare il “rispetto dei diritti umani nel paese di destinazione finale”, il “rispetto del diritto internazionale umanitario da parte di detto paese”, e devono rifiutare le esportazione di armi “qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possano essere utilizzate a fini di repressione interna”. Aspetti del commercio di armi evidentemente poco o male valutate da parte del Governo italiano.

Si comprende allora abbastanza facilmente come, sin dall’inizio, il nostro Paese abbia accusato una particolare difficoltà nell’approccio alla risoluzione Onu 1973, alla sua interpretazione ed applicazione. Certo dei buoni propositi di un “despota amico”, solo quando i giochi a livello internazionale erano ormai fatti il Governo si è espresso nel senso di un “ritardo” nell’azione di intervento e, di conseguenza, ha ritenuto di aver commesso un errore di valutazione nel pensare che la situazione libica si sarebbe evoluta come in Egitto; a riguardo, si noti che, a differenza proprio dell’Egitto, in Libia non vi è un esercito nazionale, ma una guardia presidenziale, fatto che già da sé può costituire un indice del rischio di guerra civile. Quindi l’Italia ha aderito pienamente all’intervento che, considerato necessario e legittimo in quanto portato avanti al fine di fermare il massacro di civili in corso e sotto l’ombrello della risoluzione 1973 (quindi non in contrasto con l’articolo 11 la Costruzione, come si legge dalla risoluzione approvata dalle Commissioni Affari esteri e Difesa riunite), impegna il Paese ad adottare ogni iniziativa per assicurare la protezione delle popolazioni della regione, ivi compresa la concessione in uso di basi sul territorio nazionale.

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Pochi giorni più tardi dall’inizio dell’intervento occidentale, pare che Berlusconi si sia pentito della drastica decisione presa relativamente all’intervento in Libia e, pertanto, ha cercato di tenere le fratture con la Lega da un lato, ed evitare l’Aula parlamentare dall’altro, demandando a Frattini e La Russa il compito di parteciparvi e prendere parola: ha quindi lasciato ai gruppi parlamentari il compito di votare la risoluzione di maggioranza che, di fatto, ha sancito temporaneamente una pace all’interno della coalizione di governo. Dell’ambiguità, o quanto meno della poca fermezza nella decisione relativa all’intervento in Libia, così come voluta dal Governo, si ha traccia proprio nel testo della risoluzione di maggioranza, approvata la scorsa settimana dal Senato prima e dalla Camera poi. Non è un caso, infatti, se all’interno di tutto il testo della risoluzione non si riproduce mai quel dispositivo che era stato approvato dalle Commissioni Affari esteri e Difesa riunite: in tal senso, si cercano di “appianare” le cose tra Pdl e Lega e, di conseguenza, si nega il motivo stesso del voto in Parlamento, la cui ratio è sancire e confermare proprio quella decisione già presa dalle Commissioni riunite. Al fine di riparare ai danni derivanti dall’adesione netta alla risoluzione 1973, ora nella risoluzione di maggioranza si tratta di “ribelli” e non più di “movimenti popolari di protesta”, si parla dell’Italia come del paese più esposto a ritorsioni e non si cita mai il cessate il fuoco, ma si fa piuttosto riferimento a una generica cessazione della conflittualità. Inoltre, i punti 6 e 7 del Consiglio Affari Esteri dell’Ue del 21 marzo 2011, in cui si riafferma la determinazione dell’Ue nel contribuire alla implementazione della Risoluzione 1973 e nel continuare a fornire assistenza umanitaria e protezione civile, si trasformano nel testo della risoluzione di maggioranza in un impegno affinché l’Ue renda immediatamente operativa “un’azione di pattugliamento” del Mediterraneo in funzione di deterrenza e di contrasto alle organizzazioni criminali legate anche a gruppi terroristici e dedite al traffico di esseri umani, nonché in funzione di prevenzione migratoria e, da ultimo, di assistenza umanitaria.

Tutto ciò sembra un indulgere nelle ambiguità, ovvero l’ipocrisia di chi si è pentito delle proprie scelte e ora tenta di trasmutare il senso della risoluzione 1973 – forse questo è il motivo principale dell’esclusione dalla conferenza a 4 cui ha partecipato pure la Germania –, magari ripensando nostalgicamente alle potenzialità economiche dei rapporti italiani con quel regime definito, da Berlusconi, “modello di democrazia per tutto il mondo arabo”, in quanto modello in cui il Parlamento non esiste, ma c’è semplicemente un rapporto diretto tra capo e cittadini – che, aggiungiamo noi, in tal senso forse diventano piuttosto dei sudditi.