Testamento biologico: tra etica e diritto

fine vita

Le implicazioni etico-giuridiche del tema “eticamente sensibile” per eccellenza: il fine vita

Il tema del testamento biologico tocca più specificatamente quello dell’autodeterminazione individuale, ma anche quello dell’evoluzione di giurisprudenza e legislazione rispetto alla questione delle c.d. “direttive anticipate di trattamento” (DAT). Pochi sono i temi che hanno interessato così intensamente l’attenzione dell’opinione pubblica ed accademica in anni recenti se paragonati a quello del processo decisionale circa le scelte in tema di fine vita. La preponderanza con cui il tema del fine vita si presenta oggi all’opinione pubblica, al giudice e al legislatore è comprensibile alla luce di quegli sviluppi della tecnologia medica che, permettendo l’uso di trattamenti di supporto alle funzioni vitali capaci di prolungare artificialmente l’esistenza biologica e non biografica, hanno al contempo posto l’uomo di fronte ad opportunità di scelta prima precluse e, perciò, a nuovi interrogativi sia etici che giuridici, relativi alla possibilità della persona di determinare tempi e modi del suo stesso morire.

Nella sua analisi del rapporto tra diritto e scienza medica, Sheila McLean sottolinea come gli avanzamenti in campo medico comportino la necessità di compiere delle serie scelte morali e che, allorché la stessa scienza medica fallisca nella ricerca di una risposta socialmente accettabile, soluzioni a riguardo che contemperino i diversi interessi in gioco spettano al legislatore. Dunque, ormai prepotentemente uscito dagli schemi dei soli ambienti medico-scientifici, il tema dell’autodeterminazione terapeutica esige un riconoscimento giuridico autonomo alla stregua di un diritto umano facente parte di quel corpus di diritti e libertà fondamentali dell’individuo che caratterizza e distingue le società democratiche contemporanee e che potrebbe essere ricompreso nei c.d. diritti “di quarta generazione”. A tale riguardo è quindi cruciale determinare un corretto e giusto bilanciamento dei diritti in gioco, tale da non frustrare gli interessi del medico/sanitario e della società tutta alla salvaguardia del bene vita, pur nel rispetto del diritto di ogni cittadino di autodeterminare le proprie cure in maniera anticipata, soprattutto nel caso si realizzasse la sfortunata condizione di incapacità ad esprimere la propria volontà.

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A questo proposito, ci si chiede in che termini il legislatore italiano, rappresentante eletto sulla base del principio di sovranità popolare, risulti essere effettivamente il soggetto più legittimato ad operare un equilibrato bilanciamento tra diritti fondamentali che, mettendoli in rapporto l’uno con l’altro, non leda alcuno dei loro contenuti essenziali. In sostanza, nell’intento di impedire che la tutela e la garanzia di valori e beni costituzionalmente protetti vengano compromessi, ci si domanda: è possibile sostenere che, nell’ordinamento italiano di civil law, sia assolutamente precluso al giudice surrogare la lacuna normativa lasciata dal legislatore, attraverso un’attività interpretativa dei principi generali dell’ordinamento che, per forza di cose, non si fonderebbe su alcun canone ermeneutico disciplinato per legge e potrebbe dar luogo ad una sorta di pronuncia giudiziale dalle insolite vesti di un atto di legislazione del caso concreto? In tal senso, si tratta della dicotomica questione costituzionale e politica del “se il giudice sia giudice delle leggi, e quindi debba rifiutarsi di decidere quando non esiste una legge da applicare; o sia giudice dei diritti, e quindi, accertata l’esistenza di un diritto, debba pronunciarsi comunque sulla sua tutela”.

Relativamente al rapporto tra giudice e legislatore in tema di DAT, ci si chiede dunque se sia assolutamente precluso al giudice italiano surrogare la lacuna normativa attraverso un’attività interpretativa dei principi generali dell’ordinamento: non potendo tale attività, per forza di cose, fondarsi su alcun canone ermeneutico disciplinato per legge, potrebbe dar luogo ad una sorta di pronuncia giudiziale dalle insolite vesti di atto di legislazione del caso concreto. Ancora si tratta delle concezioni del diritto come “giustizia” e come “legge”, ovvero dell’immagine del giudice come interprete delle istanze di giustizia che provengono dalla società civile, e come notaio che acriticamente controlla attività compiute altrove. Può risultare la comparazione tra il caso italiano legato alla vicenda Englaro e l’analogo caso statunitense “Terry Schiavo”: da una parte il legislatore ha sollevato il conflitto di attribuzione sostenendo che il giudice avesse violato il principio di separazione dei poteri “usurpando” l’attribuzione costituzionale di produzione normativa, dall’altra il giudice ha accusato il legislatore di aver tentato di “sconfessare” principi di diritto, sanciti sulla base di una decisione passata in giudicato, attraverso l’adozione di una legge. In sostanza in entrambi i casi, nonostante le tradizionali differenze tra ruoli di giudice e legislatore, rispetto alle DAT tali soggetti si sono trovati ad affrontare specularmente le stesse difficoltà: è stato come se la definizione dei rapporti fra giudiziario e legislativo avesse “vacillato” in entrambe le famiglie giuridiche. Dunque, anche con riguardo a quanto accaduto in anni recenti in Italia (tra i tanti, il caso Englaro), pare che vi sia stato un avvicinamento tra famiglie giuridiche a fronte di un ruolo del giudice italiano (civil law)più simile a quello anglosassone: il formante giurisprudenziale è parso il più idoneo a risolvere tali questioni, sia in termini di tempestività rispetto all’intervento legislativo, che di maggiore rispondenza alle fattispecie concrete. Si noti che la difficoltà del legislatore è stata riscontrata in Italia, ma anche nei paesi anglosassoni i cui Parlamenti solo recentemente hanno codificato principi giurisprudenziali elaborati sin dagli anni Settanta, e in alcuni paesi europei, come la Spagna e la Germania, dove leggi in materia a livello nazionale sono state adottate rispettivamente nel 2002 e 2009.

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Con riguardo al rapporto tra etica e diritto, si consideri che il tema bioetico implica spesso contrapposizioni tra orientamenti etici: si tratta dei sempre uguali laici e confessionalisti, immobili come soldatini di terracotta in un’eterna battaglia degli uni contro gli altri. In particolare, la dimensione religiosa costituisce un parametro meta-giuridico chiave negli sviluppi giuridici, e più prettamente legislativi, relativi alle DAT. L’inadeguatezza della dicotomia impone di seguire un approccio laico al diritto, tale da comprendere le diversità, anche etiche e religiose, coerentemente al bisogno delle società democratiche e liberali più di et…et che di aut…aut. Stante l’impasse del diritto rispetto all’etica, a dispetto della teoria della sacralità della vita, l’importanza del bene dovrebbe essere direttamente (e non inversamente) proporzionale alla sua disponibilità da parte del titolare: ciò corrisponde ad una concezione democratica e liberale dello Stato di diritto e, al contrario, l’indisponibilità pare configurarsi quale espressione di una concezione etica ed autoritaria dello Stato cui la persona e la sua vita apparterrebbero. Così, intenti a rovesciare l’ordine dello Stato etico-fascista e ad assicurare la centralità della persona umana cui lo Stato deve essere strumentale, i Costituenti informarono tutto il testo della Carta fondamentale al principio personalista, meta e super costituzionale. Perciò, nel disciplinare le DAT nell’ordinamento italiano, rilevano gli artt. 13 e 32.2 Cost. ed i correlativi riscontri nella normativa di rango ordinario, in pronunce della Corte Costituzionale e di Cassazione, nonché a livello di giurisprudenza di merito.

 

In conclusione, per quanto concerne il nostro paese, sebbene i giudici italiani abbiano adottato decisioni rilevanti in tema di fine vita sin dal 1951, anche chiusa la vicenda Englaro, resta aperto il dibattito circa la necessità/opportunità di una legge sulle DAT. Senza più mobilitare il Parlamento ad horas da un lato, né pretendere di dar luogo ad un diritto pervasivo dall’altro, sulla scia del dettato costituzionale, si dovrebbe piuttosto giungere ad un equilibrato bilanciamento tra diritti fondamentali che non neghi il contenuto essenziale di questi, ma anzi lo riconosca definendo quella linea di confine che li distingue e relaziona l’uno all’altro. Così, ritorna alla mente l’immagine attuale della Costituzione “presbite” elaborata dal Calamandrei e volutamente onnicomprensiva di potenziali “nuovi diritti” dei tempi a venire, e pare potersi affermare che il legislatore, senza dover volgere eccessivamente lo sguardo su scenari di un futuro remoto, alla stregua di un “miope”, ben potrebbe leggere ed interpretare le vicine e presenti richieste di diritti civili in merito all’autodeterminazione terapeutica.