Premierato direttamente elettivo: un equilibrio difficile

Premierato direttamente elettivo: un equilibrio difficile

Premierato direttamente elettivo: un equilibrio difficile

È di questi giorni la presentazione della proposta governativa di riforma costituzionale, volta a rafforzare il ruolo dell’esecutivo, tramite l’introduzione dell’elezione diretta del premier. Ad analizzarla bene, si può vedere che, così come formulata, genererebbe un equilibrio abbastanza difficile, e da come potrebbe conformarsi, in combinato disposto con la legge elettorale, rischierebbe anche di mancare almeno in parte i suoi stessi obiettivi. 

Premierato: “eccezione” in Occidente

La prima notazione che salta agli occhi è che un sistema del genere non esiste altrove, almeno in Occidente. È stato in vigore in Israele per una decina d’anni, dalla prima metà degli anni ’90 all’inizio degli anni 2000, e poi prontamente rimesso nel cassetto. Nei paesi che mantengono la duplicità delle cariche apicali dello stato, titolari del potere esecutivo e della funzione rappresentativa o di garanzia, non avendoli accorpati in un sistema presidenziale (eventualmente scorporando verso altri organi, ove ritenuto necessario, determinati poteri legati alla funzione di garanzia), se una delle due è eletta direttamente dal popolo, questa è il presidente della repubblica, come in Francia, Finlandia o Portogallo.

La cosa non sembra casuale. Infatti, un premier costituzionalmente forte, eletto direttamente dal popolo, difficilmente può coesistere con un presidente della repubblica, formalmente a lui superiore sul piano gerarchico (prima carica dello stato), ma costituzionalmente più debole, in quanto eletto non direttamente dagli elettori, ma tramite il parlamento. In caso di contrasto fra i due, il premier si potrebbe sentire legittimato a ricordare al presidente chi tra i due sia stato eletto direttamente dal popolo, e quindi sia più legittimato ad interpretarne gli umori, così stridendo con la gerarchia fra loro formalmente vigente.

Il sistema non è stato adottato nemmeno nelle monarchie costituzionali, dove pur potrebbe avere un maggior senso, in un’ottica di rafforzamento del rapporto tra i vertici dello stato ed il popolo, poiché il monarca non è eletto da nessuno ed è dinastico. Un premierato direttamente elettivo, infatti, potrebbe mettere a rischio la stessa istituzione monarchica, poiché creerebbe una figura che, se ci si passa l’espressione, potremmo quasi definire “più realista del Re”. Non ogni forma di governo appare facilmente associabile ad ogni forma di stato, e le due impalcature, per essere pienamente compatibili, devono potersi ben incastrare tra loro. Per tutte queste considerazioni, il premierato ad elezione diretta, ove introdotto in Italia, rischierebbe di essere uno stadio momentaneo e intermedio, o verso un ritorno al pieno parlamentarismo (sulla via israeliana), oppure verso un sistema presidenziale o semi-presidenziale.

Il nodo della legge elettorale

Altro tema da considerare è la legge elettorale cui associarlo. Essa non è oggetto della proposta, poiché quella elettorale è legge ordinaria, non costituzionale, e quindi dovrebbe essere oggetto di un separato intervento legislativo. Il testo che la riforma vorrebbe introdurre prevederebbe solo il premio di maggioranza del 55% dei seggi. I report giornalistici ci dicono che all’interno della maggioranza siano aperti sia al turno unico che al doppio turno. E qui potrebbe sorgere un problema, anche in considerazione del fatto che il doppio turno non hai mai riscosso molto favore tra le forze di centro-destra. Il turno unico, infatti, si accontenta della maggioranza relativa, che è pur sempre una minoranza dei voti espressi.

Ciò rischierebbe di conferire al premier una legittimazione democratica non piena, qualora non superi il 50% dei voti. In quel caso chiunque, dall’opposizione o dalle fila degli opinionisti, potrebbe ricordargli di non avere molto titolo a parlare a nome del popolo, che in quel caso avrebbe in maggioranza votato per altri candidati, e che in un ipotetico secondo turno di ballottaggio, contro il secondo classificato del primo turno, non si potrebbe sapere come sarebbe andata a finire, ed il premier eletto nel turno unico avrebbe potuto anche perdere. Questo indesiderabile effetto del turno unico maggioritario è sanabile solo con il doppio turno di ballottaggio a due, che impone il passaggio alla maggioranza assoluta, conferendo una piena legittimazione democratica. Non a caso, e allargando l’analisi anche oltre l’Occidente propriamente inteso, il maggioritario a doppio turno è sostanzialmente la regola nelle elezioni presidenziali dirette (oltre alle sopracitate Francia, Finlandia e Portogallo, anche in Brasile e Turchia), nelle quali si viene eletti presidenti se si supera il 50% dei voti, al primo o al secondo turno (caso a sé l’Argentina, dove vige il doppio turno, ma a determinate condizioni può bastare anche una sola votazione ed una percentuale minore, se un candidato supera al primo turno il 45%, oppure il 40% con un vantaggio di almeno il 10% sul secondo; più difficile invece considerare eccezione gli USA, dove vige, si, un sistema a turno unico, ma che non prevede il collegio unico nazionale, bensì tanti collegi quanti sono i singoli stati della federazione, così da rendere possibile anche che vinca chi ha preso meno voti di un altro candidato, come già accaduto sia nel 2000 che nel 2016, e l’elezione risultante non è formalmente diretta, ma effettuata tramite i “grandi elettori” dei singoli stati). La forza costituzionale del premier direttamente eletto non basterebbe a sanare la parziale debolezza politica che potrebbe scaturire da un sistema elettorale a turno unico, e che anzi diminuirebbe la forza delle istituzioni, poiché il tasso di legittimazione democratica non è superabile. Quindi l’intento di rafforzare politicamente il premier rischierebbe di rimanere almeno parzialmente frustrato. 

Dulcis in fundo, l’abolizione dei senatori a vita. È forse l’unico aspetto della riforma condivisibile toto corde, senza patemi, anche oltre i limiti della proposta in discussione, che lascerebbe tribuna agli ex-presidenti della Repubblica. Si vorrebbe infatti che il ruolo rappresentativo, da parte delle assemblee elettive, non subisse limitazioni di nessun tipo. Non a caso, spesso nemmeno gli ex-presidenti sono membri vitalizi del parlamento, come ad esempio negli USA, dove i vari Trump, Obama e predecessori vari non hanno il seggio a vita. Ma nelle proposte a pacchetto, anche le parti più positive seguono il destino del resto della riforma, ed in un probabile referendum rischierebbero di venire bocciati insieme ad altri aspetti, più difficilmente condivisibili. 

Nicola Storto

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