La “favola della crisi europea” e l’eterna tentazione del moralismo

Merkel interessata al cambio di Governo italiano

La “favola della crisi europea” e l’eterna tentazione del moralismo

 

E’ da anni che ci viene raccontata una favola. Come tutte le favole è bella, comprensibile a tutti ed educativa. E sopratutto ha una morale, vuole dare degli insegnamenti. Proviamo a raccontarla di nuovo.

C’era una volta un grande continente, con tanti paesi diversi, pieni di abitanti e brulicanti di attività. Non tutti questi paesi però erano uguali. Al Nord abitavano popoli industriosi, avveduti e previdenti, che si preoccupavano per il loro futuro, amministravano oculatamente le loro ricchezze ed erano governati saggiamente. Discutevano civilmente tra loro e alla fine decidevano cosa fosse meglio fare, non guardando solo ai loro desideri presenti, ma anche al futuro dei loro figli e nipoti. Gli abitanti erano discreti e morigerati nelle loro abitudini. Il tempo passava e tutto procedeva nei migliori dei modi in quelle terre.

Diversamente invece avveniva nelle terre del Sud. Lì al contrario gli abitanti erano pigri e indolenti, dediti a sperperare e a scialacquare. Ciò che guadagnavano lo spendevano e, dato che non lavoravano molto, per soddisfare i loro vizi e per continuare a gozzovigliare si indebitavano fino al collo. I loro governanti facevano lo stesso e, oltre a comportarsi come satrapi, spendevano il denaro pubblico senza ritegno, aumentando a dismisura anche i debiti del Tesoro. A differenza dei loro cugini del Nord, gli abitanti del Sud erano confusionari, ciarlieri, pettegoli. I giovani erano mammoni e poco desiderosi di lavorare, preferendosi fare mantenere dai genitori. Dunque nelle terre del Sud tutto procedeva nel più grande caos.
Tuttavia un bel giorno un nuovo governante eletto nel paese più dissoluto e spendaccione di tutti, vide che non era rimasto nemmeno un soldo nei forzieri dello Stato e che i debiti erano diventati troppi. Intraprese dunque un lungo viaggio e andò a bussare alla porta della saggia governante del più grande paese del Nord, chiedendole di ripianare i suoi debiti. La signora, gentile ma severa fece la faccia scura e disse : “Hai scialacquato finora e ora vieni alla mia porta a chiedere che io copra le tue malefatte? Che ne direbbero i miei cittadini che hanno lavorato tanto per accumulare la nostra ricchezza?” e rifiutò di aiutarlo.

Intanto però i debiti del piccolo paese crescevano sempre di più, i banchieri minacciavano di non rinnovarli più e si rischiava la bancarotta. Allora la governante del grande paese del Nord fu mossa a compassione e concesse il suo aiuto. “Ma in cambio” disse “dovrete ravvedervi dai vostri errori, e diventare un popolo industrioso come noi”. I governanti del piccolo paese dovettero prendere molte misure dolorose, ma, dati gli eccessi precedenti, era inevitabile. Ma la situazione non migliorava e il governante tornò a bussare a quella porta, e ottenne altro aiuto, in cambio di sacrifici ancora più gravosi.
La storia si ripetè per molte volte e gradualmente, anche gli altri paesi spendaccioni del Sud finirono in difficoltà. In uno di essi il vecchio satrapo venne cacciato e venne chiamato al potere un onesto e anziano signore, che per tutti quegli anni di sconsideratezze era rimasto in disparte. Via via tutti i paesi del Sud ottenevano aiuto in cambio dell’impegno a ravvedersi e a porsi sulla retta via.
Ma la situazione si faceva sempre più cupa. Nelle terre un tempo goderecce gli abitanti finivano sul lastrico, le manifatture chiudevano, i debiti non accennavano a diminuire. E allora la folla dei governanti dei paesi del Sud si affollava davanti alla porta del palazzo del Governo del grande paese del Nord, pregandolo di autorizzare la grande Banca Centrale a dispensare il suo denaro a piene mani, per trarre fuori i paesi del Sud dalle loro difficoltà, oppure a condividere il loro debito. Ma il severo ministro delle finanze rispondeva: “Questo non è possibile. Solo quando sarete cambiati e diventati responsabili come noi potremmo fare quello che chiedete”. Intanto gli abitanti dei paesi del Nord erano sempre più spazientiti. Erano stati più che magnanimi ad aiutarli! Cosa pretendevano ancora? Avrebbero dovuto forse mettere in pericolo il futuro loro e dei loro figli per aiutare questi scialacquatori?
E fu così che infine gli abitanti del Nord chiusero le loro porte e i loro forzieri, lasciando i popoli del Sud al destino che si erano giustamente meritati. E (i primi) vissero tutti felici e contenti.

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Attraverso questa storia, la crisi europea è diventata un morality play, un dramma edificante fatto di colpe, punizioni, sacrifici, incoraggiamenti e reprimende, secondo una struttura narrativa che è a tutti familiare fin dall’infanzia e che fa leva su errori da cui nessuno può chiamarsi fuori.
La favola fa leva su elementi di verità, include rimproveri che in determinati casi sono giustificati. Chi vuole supportare questa favola con esempi tratti dalla realtà né troverà sempre un’infinità (assunzioni clientelari, episodi di corruzione, inefficienze). Non solo, troverà in questa favola un’utile mezzo per denunciare giustamente tali episodi. E potranno invece leggere i tentativi di attribuire la crisi principalmente al comportamento dei tedeschi come un tentativo di scaricare su altri le proprie responsabilità ed evitare di cambiare. Il loro argomento è forte e convincente: dopotutto ce lo siamo meritato!

Qual è il problema di questa lettura? Semplicemente il fatto che è completamente sbagliata. Come ho spiegato nell’articolo “Angela Merkel, o dei pericoli del senso comune” la dinamica e lo sviluppo della crisi è dovuta molto di più all’orientarsi del comportamento tedesco in base a questa favola che non alle cause addotte da questa favola stessa.

Siamo qui di fronte a un singolare intreccio e confusione di piani, che ci porta a interrogarci sui rapporti tra morale, politica ed economia.

Un principio classico della tradizione europea è la separazione di morale e politica. Si tratta di un principio oggi spesso dimenticato e trascurato, perché negli ultimi decenni da questo punto di vista la nostra politica ha assunto sempre più aspetti e moduli propri della tradizione anglosassone, nella quale il confine tra i due ambiti tende ad essere sottile. Ma questo non è necessariamente un bene.
Separazione tra politica e morale non significa naturalmente che la politica sia o debba essere immorale, ma semplicemente che la “moralità della politica” si valuta secondo altri parametri rispetto a quella delle persone. Un grande uomo di Stato può essere al contempo una persona dedita ai vizi, ma questo non ne intacca la qualità politica (la storia abbonda di esempi del genere). Non solo, ma la politica può usare mezzi che normalmente sarebbero considerati immorali (si pensi al caso emblematico dei servizi segreti) per perseguire quello che dal punto di vista del paese è un bene maggiore.
La vera distinzione tra una politica “morale” e una politica “immorale” è un’altra. “Morale” è la politica che mette i mezzi e la necessaria conquista del potere al servizio di un fine o di un’idea, mentre “immorale” è quella politica in cui la ricerca di potere e privilegi è fine a se stessa. E’ qui che va ricercata la vera insufficienza della politica degli ultimi decenni. Nell’aver perso quella carica ideale e progettuale che l’aveva caratterizzata in precedenza. E’ a quel punto che i giusti onori che vengono tributati all’uomo di Stato diventano “privilegi”, che la classe politica e dirigente diventa “casta”, che lo Stato diventa sinonimo di spreco e corruzione.
Il problema è che questo discorso polemico contro la politica, giusto nella misura in cui serve a denunciare il decadimento di questa nei confronti di ciò che dovrebbe essere, tende a diventare invece giustificazione dello smantellamento della politica stessa e della sua funzione. Per lungo tempo si era pensato che la politica fosse diventata tutto sommato storicamente inutile, sorpassata, che dovesse limitarsi ad una semplice amministrazione dell’esistente. Questo perché esisteva un’idea più o meno condivisa delle caratteristiche del sistema e un ordine internazionale sostanzialmente stabile. In questa situazione non vi erano grandi scelte da compiere, si trattava di applicare più o meno bene (in maniera più o meno efficiente) una ricetta unica.
Ora non è più così. La crisi solleva delle domande che interpellano qualcosa di più profondo: diverse visioni della società, la necessità di una comprensione profonda dello scenario internazionale, le ipotesi di riforma del sistema economico globale.

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Da questo punto di vista, la crisi dell’Euro rappresenta uno scenario paradigmatico. La Germania propone una lettura della crisi interamente ispirata dai suoi interessi strettamente nazionali (forse anche da una visione miope dei propri interessi nazionali, ma lasciamo stare questo aspetto). La politica degli altri paesi deve accettare in silenzio, perché, viste le “colpe” passate, non si ha il diritto di avanzare pretese? O non deve invece denunciare con forza questo fatto e pretendere che si volti pagina rispetto al passato, cercando un nuovo inizio e assumendo un atteggiamento positivo nei confronti del futuro?

Si pensa che le colpe dei padri debbano necessariamente ricadere sui figli, assumendo in pieno il meccanismo vittimistico-sacrificale proposto dalla Germania. Ma se la politica ha un senso, questo è proprio nello spezzare l’illusione deterministica che il passato determini interamente il futuro. Dare un futuro all’Europa significa cambiare questa logica e avere il coraggio di pretendere che si investa nel futuro dell’Europa (sia materialmente che spiritualmente). Smettere di pensare al debito come un fardello insostenibile, ma considerarlo come qualcosa che può essere relativizzato, e il cui peso può essere diminuito da una nuova stagione di investimenti e di crescita. Iniziare una vera stagione costituente europea e costruire una nuova cultura davvero europea, una classe dirigente non solamente tecnocratica. Ma per questo, appunto, ci vorrebbe la politica, una politica che non si confronta sul metro dei sondaggi e delle virgole sui bilanci, ma su quello della storia.