Perchè i partiti non funzionano?

Partiamo dalle basi. Che cos’è un partito politico? E’ un’organizzazione collettiva che raccoglie molte persone per realizzare un’unità d’azione, ovvero per agire all’interno della società come un soggetto unico, realizzando scopi che per il singolo sarebbero irraggiungibili.
Ciò che distingue un partito che funziona con metodo democratico da un partito verticistico, sta nel fatto che almeno i fini dell’azione politica dovrebbero essere stabiliti attraverso la discussione interna al partito. Le molte persone che liberamente decidono di entrare nel partito (gli iscritti) dovrebbero, secondo dei metodi stabiliti, determinare la linea politica del partito stesso.

I movimenti spontaneisti pretendono che la discussione non abbia in linea di principio mai termine, che chiunque possa sollevarla e che solo attraverso l’unanimità possano essere prese decisioni, che non debbano esserci ruoli definiti. Questo tipo di organizzazione, alla prova dei fatti, va incontro a difficoltà insormontabili. In primo luogo le assemblee tendono ad essere in preda alla volubilità e all’emotività, e sono dunque facilmente manipolabili dal demagogo o dall’oratore di turno. In secondo luogo con un’organizzazione di questo tipo è difficile dare continuità all’azione politica, che rimane impigliata in continue discussioni, e nella rimessa in questione dei ruoli dei rappresentanti del movimento, che non hanno una legittimazione stabile ma devono continuamente richiederla nuovamente all’assemblea e ai suoi umori.

Il partito politico deve dunque rispondere a due necessità: da un lato assicurare che la formazione della linea politica avvenga attraverso la più ampia e partecipata discussione, dall’altro che, una volta decisa, la linea politica possa venire applicata con decisione e perseveranza dall’intero corpo del partito. E’ dunque necessario che i due momenti (discussione e attuazione) vengano separati. Sia chiaro, la discussione può e deve continuare in permanenza, sopratutto a livello culturale e come interpretazione continua dei nuovi fenomeni in atto, ma questa non deve essere tale da mettere in poter discussione in ogni momento la linea politica fondamentale.

I partiti tradizionali circoscrivevano al momento del congresso la ridiscussione della linea politica, alla quale era associata l’elezione degli organismi dirigenti. Questo punto (il legame tra proposta politica e personaggi che se ne fanno portatori) è fondamentale ed è qualcosa che è tendenzialmente andato perso negli ultimi decenni, quando ci si è focalizzati unicamente sulla questione della leadership, relegando in secondo piano i contenuti e le proposte politiche. Una volta chiuso il congresso, almeno in linea di principio, la linea decisa avrebbe dovuto essere portata avanti dalla totalità del partito, garantendo così quell’unità d’azione che era il fine per il quale il partito era nato.

L’esistenza delle correnti potenzialmente mina questo meccanismo, in quanto rende permanente la discussione politica e rende virtualmente onnipresente un conflitto per la conquista del controllo del partito, che può minare l’efficacia dell’azione del partito all’interno del paese. Tuttavia la presenza delle correnti può essere gestita da un partito strutturato, attribuendo ad esse spazi limitati in cui possano esprimersi. E’ quando invece un partito è debole che le correnti acquisiscono forza e lo spingono verso il caos interno.

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Questa è all’incirca la situazione dei partiti attuali, e in particolare dell’unico partito che meriti ancora di essere considerato tale, ovvero il Partito Democratico. Le strutture di partito spesso, lungi dall’essere unità specializzate nell’affrontare determinati temi per il bene del partito nel suo intero, tendono ad essere terreno di scontro tra fazioni e cordate interne al partito. Lo stesso “apparato” del partito, che dovrebbe in linea di principio svolgere una funzione tecnica, per favorire l’attuazione della linea politica decisa, essendo dunque in linea di principio quanto più possibile depoliticizzato, scende in campo direttamente nello scontro politico, rendendo il partito nel suo complesso molto spesso incapace di agire.

Per superare questa situazione sarebbe bene recuperare più nettamente la divisione accennata, ridurre il protagonismo dei singoli personaggi e sopratutto riscoprire un forte elemento di elaborazione culturale interna al partito, in modo che questo non sia più semplicemente un aggregatore di interessi, un’agenzia elettorale o un legittimatore di élite provenienti dalla “società civile”, ma il portatore di una vera e propria visione del mondo, di una visione della società e del suo cambiamento possibile. Questo sarebbe il punto di partenza per riuscire nuovamente a coinvolgere larghi strati di società, comunicando maggiormente il valore della politica a chi fosse potenzialmente desideroso di impegnarsi in essa. Il recupero di una struttura definita e capillare sarebbe consustanziale a questo processo, permettendo così ai partiti di recuperare quel legame con la società che da quando si va propagandando il “partito liquido” è stato largamente perso. La partecipazione diffusa permetterebbe di ricreare una discussione vera e non autoreferenziale e anche di recuperare la funzione del partito come strumento di selezione di classi dirigenti, non più provenienti da canali elitari, ma attraverso un reale radicamento popolare. In questo quadro anche i nuovi mezzi di aggregazione, come Internet e anche le strategie di “marketing”, potrebbero giocare un ruolo importante, ma non certo come sostituzione di forme più strutturate e continuative di militanza e partecipazione.

A questo fine sarebbe necessaria una divisione netta tra “militanti” e “simpatizzanti”, dove i primi contribuiscono alla formazione della linea politica e i secondi vengono coinvolti in un secondo momento (naturalmente con la possibilità per i secondi di impegnarsi nel partito). La necessità di questa divisione nasce dalla complessità della società: mentre il partito deve porsi l’obiettivo, per quanto possibile, di “formare” i militanti e di aiutarli a comprendere le problematiche in campo, per quanto riguarda i simpatizzanti questo non è chiaramente possibile fino in fondo e quindi è sufficiente limitarsi a forme di mobilitazione più generiche intorno ad alcuni temi fondamentali e slogan.

D’altra parte il partito dovrebbe rinnovare la sua organizzazione, cercando forme anche più “efficienti”, una volta che l’obiettivo sia stato chiarito per via politica. La formazione dei quadri dovrebbe essere oggetto di un’attenzione rinnovata. Anche la presenza di “scuole di partito” dovrebbe essere recuperata e oggetto di un’attenzione maggiore. Queste scuole non dovrebbero essere autoreferenziali ma a stretto contatto con la riflessione degli intellettuali vicini al partito e con la discussione politica.

Va insomma sfatato l’equivoco che un partito più “leggero” sia maggiormente utile alle esigenze del mondo contemporaneo. E’ invece la strutturazione del partito che gli permette di adempiere ai compiti posti da una società complessa. Non si vede del resto per quale motivo una grande azienda dovrebbe avere tale strutturazione e un partito invece no. Il compito del partito è persino più complesso, in quanto, mentre l’azienda deve solo affermare se stessa, il partito deve avere un punto di vista sull’intera società e un’idea di interesse generale.

Va da sè quindi come il problema dei “costi della politica” sia del tutto fuorviante e mal posto. Il problema non sono i “saldi” di spesa, quanto la loro allocazione. E’ evidente che ripugna ad ogni cittadino lo spreco dei soldi pubblici. Ma se i soldi vengono sprecati, questo avviene principalmente perché l’organizzazione dei partiti non consente loro di adempiere ai reali compiti che dovrebbero svolgere nella società.