Dal Blog: Ascolta la terra

Questa vendemmia non sarebbe stata buona, lo sapevo da un mese. E non ci dormivo.  Perché era la mia prima da responsabile di tutta l’azienda. Che pessimo esordio.

Stasera vado di nuovo a parlare con gli enologi, sperando che – non so come – mi dicano qualcosa di diverso. Che ne so, tipo: è stato un brutto sogno, torna a dormire. O forse, sarei io che mi dovrei svegliare.  E buttare tutto all’aria. Oppure vendere.  Rischiando che il fantasma del mio bisnonno si aggiri per il podere sbatacchiando un mazzo di chiavi.

Perché io, questo mestiere non lo amo.

Sono nato e cresciuto in mezzo ai vigneti di Barbaresco. Che bello, dicono sempre tutti. Non per me. O meglio, fin quando ero ragazzino sì. Poi sono andato a studiare a Torino e pensavo di poter girare un po’ l’Europa, alternare un paio di stage al cazzeggio, magari tornare dopo un annetto e poi decidere.

Invece tu te ne sei andato, per sempre.

E ho iniziato a sgobbare insieme agli altri, purtroppo conscio che prima o poi sarei diventato il padrone di tutto. Ed ora, a 28 anni, lo sono. La mia giovane vita è il vino. Non volevo lo fosse, non adesso. E non riesco a pensare ad altro. E più passano i giorni, più non ce la faccio. E tutti che mi dicono: vai avanti, è l’azienda di famiglia, le nostre bottiglie girano il mondo, i compratori da New York, pensa quando iniziò tuo bisnonno …

BASTA!

In quei momenti, odiavo tutto e tutti. Anche mia madre. Anche i miei fratelli, che sono ancora troppo piccoli se no col cavolo che sarei qui a impazzire.

Ma, prima d’ogni altro, il pensiero andava a te, che mi hai lasciato solo.

Lo so, non è colpa tua. Ma nemmeno mia.  Lo so, ogni volta che tornavo da Torino per il fine settimana passeggiavamo insieme per i filari e iniziavi a spiegarmi il lavoro dietro ad ogni acino. Io ascoltavo, un po’ annoiato. Tu, infine, mi guardavi e, sorridendo, mi dicevi: “Dai, facciamo un salto in macchina ad Alba e ci prendiamo un gelato. Guida tu”. E ci dimenticavamo per mezz’ora del vino, pensando entrambi che ci fosse ancora tempo. Molto. Per far tutto.

Guardo una foto di noi due, appoggiata su uno scrittoio in salone. Ridiamo mentre stai stappando uno spumante per i miei 21 anni. Entrambi ignari fosse l’ultimo giorno che avremmo festeggiato insieme.

“Claudio!”

(che vorrà adesso?) “Che c’è, mamma?”

“Ce li hai tutti i documenti per l’incontro di domani?”

“No, mi manca quella visura del terreno di Montà”.

“Eh, lo so. Te l’ho portata io, eccola qui”.

“Grazie. Cos’è quella scatola?”

“Ah niente, l’ho trovata in un armadio e ci sono delle cose tue. Foto da piccolo, altra roba”.

“Ah”.

“Bè, magari c’è qualcosa che ti piace. Non la guardi?”

“Devo farlo adesso?”

“No no, per carità”.

“Fammi star solo, per favore”.

Mia madre fa per uscire, ma prima di varcare la porta sembra capire ciò che sto pensando e mi dice: “Tutto si sistema. Anche quando non ci sembra possibile”.

Io non rispondo.

Mi alzo, guardo quella scatola sul pavimento e mi vien voglia di prenderla a calci finché non sia del tutto a brandelli. Cerco di calmarmi. Penso al Minias che prenderò stasera prima di coricarmi. Sono stufo di ricordi, di foto con la mia famiglia patriarcale, di botti di rovere. Mi chino per prendere in braccio la scatola e riporla in qualche armadio, ma la lascio scivolare dalle mani con goffaggine. Cadendo, spunta un lembo di una busta non sigillata. Come se contenesse una lettera mai recapitata.

Sarà per me, penso. Decido di aprirla. Pentendomi un secondo dopo averlo fatto.

Riconosco subito la grafia.

Tremo. Vorrei far finta di nulla, ma è più forte di me e la leggo.

Claudio, picinìn (so che ti arrabbi quando ti chiamo così).

Sorrido. E tremo allo stesso istante.

Sei ancora giovane, stai studiando, hai i tuoi progetti, ti diverti. E’ giusto così e sono il primo a capirlo. Non è ancora arrivato il momento di passarti la mano, ma prima o poi succederà, anche se non ti pare possibile.

E’successo, papà. Cazzo. Tremo sempre più.

Sei il mio erede, in tutto. Sei come me, anche se non lo credi. A te l’azienda sembra solo fatica, lavoro, routine: l’andamento delle stagioni, programmare già ora l’anno prossimo, curare i rapporti con gli investitori. Vista così, sembra solo un incubo.

L’hai detto. Stringo forte i pugni, come se mi preparassi ad affrontare un balordo che mi sbarra la strada. Ma continuo a leggere.

E invece no.  Ricordati una cosa, la più importante. Per lavorare bene, bisogna divertirsi. Sì, non sono matto! Se non ti diverti, ai matti ci vai tu.

Eh.

E come ci riesci? Intanto, ascolta la terra. Ascolta il rumore delle zolle quando ci cammini sopra. Ascolta il vento che passa in mezzo agli acini. Respiraci dentro. Immergiti nei filari, come facevi da piccolo quando ti nascondevi.

Sorrido di nuovo.

Io lo faccio, soprattutto quando sono in crisi e mi sembra di non venire a capo di un problema. Se restassi in ufficio a farmi bersagliare di telefonate, non ce la farei mai. Allora esco, anche solo per un quarto d’ora, per andare a respirare le nostre vigne. E poi mi rimetto a lavorare. Fallo anche tu, quando toccherà a te.

Poche, ma pesanti lacrime incominciano a cadermi sulle guance.

Noi facciamo un lavoro fantastico, ma che può essere migliorato ancora e ancora e ancora. E tu ci puoi riuscire. Porta le tue idee, non seguire sempre e solo quello che ti dicono gli altri. E non aver paura di sbagliare. Rischia. Credendo in ciò che fai e che dici.

Le lacrime sono diventate un torrente. Proseguo la lettura a fatica.

Ma guai se dovessi fare tutto tu. Impara a entrare in sintonia con gli altri. E’ difficile, ma che soddisfazione. Col tempo saprai fidarti di chi merita la tua fiducia e riconoscere chi ti sta fregando. E sarà tutto più semplice. E allora,

La lettera finisce, bruscamente, qui. Come se mio padre avesse iniziato una specie di testamento e questa fosse la prima parte. Che però, ora, è per me la più importante. Il mio pianto si trasforma, a poco a poco, in lacrime di gioia. Per averlo ritrovato quando ne avevo un disperato bisogno. Ora non sono più solo.

Rileggo la lettera più volte. La stringo forte a me. La ripiego, infine, nella sua busta e corro in camera mia per riporla nel cassetto dei documenti importanti.

Faccio un bel respiro. Tra poche ore avrò l’ultimo appuntamento per l’esito della vendemmia. Prima, però, andrò ad ascoltare la terra insieme a lui.

di Davide Valenti