Piemonte, il Consiglio di Stato dà ragione a Cota (e a TP?)

cota dimissioni dei consiglieri in Piemonte

Stop al riconteggio, come si era previsto su queste pagine. Ma sulla testa del governatore leghista pende il nodo Giovine.

Al termine di una concitata udienza, il Consiglio di Stato ha sospeso l’esecutività della sentenza del T.A.R. Piemonte con la quale era stato disposto il riconteggio delle schede delle ultime elezioni regionali. Le motivazioni della decisione non sono ancora state pubblicate, ma è già possibile fare quale previsione sui futuri sviluppi della vicenda, e sulle ragioni che hanno condotto i giudici romani a ribaltare (non è chiaro fino a che punto) la decisione di primo grado.

Innanzitutto: la pronuncia di questa sera non è definitiva, anche se rappresenta certamente una anticipazione della sentenza che verrà emessa nelle prossime settimane. Il Consiglio di Stato si è pronunciato in sede cautelare, cioè in via d’urgenza, sull’appello proposto da Roberto Cota (e altri) nei confronti della sentenza del T.A.R. Piemonte. L’unico effetto immediato di questa decisione è la sospensione del riconteggio. Come abbiamo spiegato nel precedente approfondimento, tuttavia, in assenza del riconteggio il T.A.R. non sarà in grado di assumere alcuna decisione sull’eventuale annullamento delle elezioni. Quindi la sentenza definitiva del T.A.R., attesa per il prossimo mese, non arriverà fino alla decisione definitiva del Consiglio di Stato sull’appello. Ed è improbabile che i giudici di Palazzo Spada si smentiscano ribaltando la loro stessa decisione.

Di conseguenza, la possibilità di un annullamento delle elezioni, come quella della “sostituzione” del candidato vincitore da parte del T.A.R. sembra archiviata, almeno per il momento.

Rimangono tuttavia in piedi i ricorsi contro la lista “Pensionati per Cota” di Michele Giovine, sotto processo per aver falsificato le firme dei sottoscrittori e le autenticazioni. Su questa seconda parte della vicenda, né il T.A.R. né il Consiglio di Stato si sono ancora espressi e le prime decisioni non potranno arrivare – verosimilmente – prima di alcuni mesi, considerando i tempi del processo penale e della parallela “querela di falso” promossa davanti al tribunale civile (anche su questo punto ci permettiamo di rinviare ai precedenti articoli).

L’unica certezza sembra essere perciò la seguente: le elezioni del marzo scorso rischiano di restare sub iudice per almeno un altro anno. E non c’è modo di prevedere l’esito della vicenda giudiziaria, vista la estrema complessità delle diverse questioni che sono state sollevate dalle parti.

Per quale ragione il Consiglio di Stato ha smentito il T.A.R.?

Questa domanda ci costringe a entrare nel campo delle speculazioni, almeno fino a quando le motivazioni non saranno rese note.

Nel primo di questi approfondimenti dedicati alla vicenda dei ricorsi elettorali (Tanto rumore per nulla: un pronostico…, pubblicato su TP il 12 luglio scorso), pochi giorni prima che il T.A.R. si pronunciasse, avevamo avanzato alcuni dubbi sulla fondatezza del ricorso contro la lista di Deodato Scaderebech: “E’ opinione diffusa che il ricorso proposto da Verdi e UDC abbia scarsissime probabilità di accoglimento. Infatti Scanderebech, pur espulso dal proprio partito, era ancora formalmente il suo capogruppo in Consiglio regionale al momento della presentazione della lista…”.

E’ ipotizzabile che il Consiglio di Stato abbia ritenuto infondato il ricorso sulla base degli stessi motivi che – come TP aveva anticipato – facevano concentrare le speranze dei legali di Bresso sull’esclusione della lista di Michele Giovine, piuttosto che sugli altri ricorsi.

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In estrema sintesi: il T.A.R. aveva sentenziato che la lista di Scanderebech non avrebbe dovuto essere ammessa, nonostante presentasse tutti i requisiti formali, sulla base di una complessa interpretazione della legge elettorale. L’ex esponente dell’UDC avrebbe infatti rispettato la lettera della legge, tradendone lo spirito. Tutto ruota attorno alla possibilità, prevista dalla legge regionale, di presentare senza il supporto di firme liste elettorali con denominazione e simbolo diversi da quelli già presentati, ma comunque “collegate” allo stesso movimento politico. La dichiarazione di collegamento è compito del capogruppo in consiglio regionale: Scanderebech lo era, al momento della presentazione della (sua) lista, ma era già stato espulso dal suo partito e non poteva più pertanto esserne considerato un rappresentante.

Il T.A.R. ha lungamente argomentato sulla necessità di una interpretazione non formalistica della legge, facendo prevalere il dato sostanziale sulla qualifica, ancora ricoperta, di capogruppo (in buona sostanza: Scanderebech aveva lasciato l’UDC e non poteva più presentare una lista a suo nome).

Il Consiglio di Stato – probabilmente – non ha accolto questa interpretazione, confermando l’opinione diffusa tra i legali delle diverse parti, che TP aveva ritenuto opportuno anticipare.

Ai lettori diamo nuovamente appuntamento all’indomani della pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato.

 


Andrea Carapellucci, analista giuridico di TP, si è laureato in Giurisprudenza all’Università di Torino ed è dottorando in Diritto amministrativo presso l’Università degli Studi di Milano.