Texas, our Texas…dopo la rielezione di Obama boom di firme per la secessione

“Texas, our Texas, All hail the mighty state”. Così inizia l’inno nazionale del Texas, che spesso sentiamo cantare fra i grattacieli di Dallas, così come fra le campagne di Crawford.

“Nazionale?”, direte voi. Sì, non è un refuso di scrittura: il Texas è l’unico stato USA ad averne uno.

Basterebbe aprire i libri di storia per leggere di quanto gli abitanti del Lone Star State siano orgogliosi della loro tradizione e rivendichino, a volta con rabbia, la loro autonomia.

Non è il solo il dispregiativoyankee” rivolto ai non texani, così come non è solo l’odio verso i liberal di New York o quel detto “everything is bigger in Texas”; i texani di sentono davvero uno stato a parte, e d’altronde lo furono fino al 1845, quando “Repubblica del Texas” decise di unirsi agli Stati Uniti anche per difendersi da quei messicani che l’avevano dominata per anni. “Remember The Alamo?”.

Non è così raro sentirsi dire “you are in the south now” se per sbaglio, al diner di turno, si ordina un tè che non sia rigorosamente freddo, o  di sentire un uomo, che vive a Dallas da più di vent’anni, essere apostrofato come “foreigner” per la sola “colpa” di essere nato a Seattle (yankeeland, ndr), o ancora  di subire sguardi di disapprovazione se si dice di preferire la ben più conosciuta coca cola, alla “lovale” Dr Pepper.  Tutto questo è il Texas.

Come tutti sappiamo gli USA si definiscono una “democrazia partecipativa”. A renderli tali sono sicuramente le primarie di partito così come l’abitudine di far votare i propri cittadini su qualsiasi carica, dal Presidente, ai giudici, ai dirigenti scolastici. Ma esiste una procedura, sconosciuta ai più, che rende ancor più l’idea: sul sito web della Casa Bianca ogni cittadino ha la possibilità di avanzare proposte di legge e, laddove una di queste venga controfirmata da almeno venticinquemilafellow citizens”, l’Amministrazione sarà obbligata a fornire una risposta ufficiale.

Inevitabile che un tale strumento venga abusato, e che spesso le proposte avanzate siano delle vere e proprie “boutade”, a volte anche di anche di cattivo gusto: dalla richiesta di dichiarare la chiesa battista “un gruppo terrorista”, alla legalizzazione della “pedofilia on-line”, per arrivare alla richiesta di condannare a morte d’ufficio un particolare imputato.

E tale era ritenuta anche la proposta del Texas Nationalist Movement il quale, pochi giorni prima delle elezioni del 6 novembre scorso, depositò il seguente quesito:  “si richiede all’amministrazione di permettere al Texas di secedere pacificamente dall’unione, e di formare un proprio governo”.

“Le elezioni sono state un momento catalizzante per il successo della nostra iniziativa”, così ha affermato pochi giorni fa il presidente del movimento Daniel Miller commentando l’enorme numero di firme ricevute a sostegno della proposta.  Ed è stato difatti un boom successivo alla vittoria di Barack Obama a permettere all’iniziativa di superare di gran lunga la soglia richiesta raggiungendo, martedì scorso, quota 72.500 firme.

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Ad onor del vero dopo la conferma del presidente uscente numerosi cittadini hanno pensato di richiedere la secessione del proprio stato dall’unione. A testimonianza di quanto il popolo americano sia diviso, sono comparse sul sito dell’amministrazione medesime richieste provenienti da Louisiana, Georgia, Kentucky, Oregon, Montana, Mississippi, Florida, Arkansas e numerosi altri stati, anche New York ! difficilmente però raggiungeranno lo stesso successo della richiesta texana. “La nostra è una torta in lievitazione da anni, la rielezione di Obama è stata solo la candelina finale” ha affermato Miller a tal proposito.

Sono molti i texani insofferenti verso il governo federale, e altrettanti quelli che vedono in Obama un “usurpatore” del ruolo di presidente. Passino i birthers “à la Donald Trump” che credono che sia nato in Kenya, per gli abitanti del Lone Star State quello che è difficile accettare è il fatto che un presidente da loro tanto odiato sia venuto dopo i due mandati dell’”eroe” locale George W. Bush. Come ricorda un cartellone di benvenuto a Crawford, città del famoso ranch dell’ex presidente, “this is Bush Country”.

Certo, ci sono anche numerosi texani contrari all’indipendenza. Molti hanno votato per Obama, e altrettanti vogliono rimanere nell’unione pur essendo ferventi repubblicani ed è praticamente impossibile, oltre che impraticabile, anche solo pensare ad una indipendenza del Lone Star State. Non accadrà.

Rimane però il significato politico del successo di una tale iniziativa e l’imbarazzo, a Washington come a Austin è certamente notevole tanto allo spingere il governatore (ed ex candidato Presidente alle primarie repubblicane) Rick Perry ad affermare come egli creda “nella grandezza dell’unione e nella necessità che questa non cambi, anche di fronte alla giusta preoccupazione e frustrazione di fronte alle politiche federali”. “Una affermazione ambigua” secondo Miller e sicuramente sofferta da parte di un governatore che solo pochi mesi fa aveva egli stesso ipotizzato una possibile “separazione”.

L’amministrazione dovrà ora fornire una risposta e sarà inevitabile un dibattito sulla questione. Sui forum, sui social networks e sulle maggiori testate giornalistiche online hanno già cominciato a discutere i sostenitori di una o dell’altra opzione. Emblematica a tal proposito la provocazione di un elettore democratico dello stato del Maryland sul sito della CNN: “Secessione del Texas? Lasciate che se ne vadano, ma dopo i soldi federali utilizzati per costruire il muro col Messico, quello fra Texas e Stati Uniti dovranno pagarselo loro”.

E già sono apparse sul sito della Casa Bianca, contropetizioni sull’argomento; per richiedere la separazione di Austin, capitale dello stato e suo unico bastione “liberal”, dovesse il Texas davvero secedere,  così come per affermare la necessità di “esiliare chiunque richieda la secessione del proprio stato”.

Fra slogan populistici e risposte “incredule” e “sdegnate” dei politici di turno sarà però inevitabile porsi una domanda: chissà se davvero un giorno, più o meno lontano, non toccherà abituarsi a sentire più spesso quell’inno:

“God bless you Texas, and keep you brave and strong, that you may grow in power and worth, throughout the ages long …”