Dal Blog: Le mirabolanti avventure di MPS, brevemente riassunte

Visto che pare non essere chiaro a tutti in cosa consista il guaio di Montepaschi (e molti media stanno aiutando poco la comprensione della vicenda, a giudicare dalle richieste di spiegazioni che ho ricevuto) riassumiamo ai minimi termini le tre operazioni che hanno portato al dissesto di Rocca Salimbeni.

Esse sono: operazione Antonveneta, operazione Santorini e operazione Alexandria.

L’operazione Antonveneta concerne l’acquisto della banca da parte di MPS. Antonveneta, dopo traversie che non stiamo a riassumere, finisce nelle mani di Santander, per un valore di 6,6 miliardi, che pochi mesi dopo la vende a MPS. Per capire la questione è utile la metafora dell’acquisto di un’auto. Se un tizio vuole vendermi un auto che ha acquistato pochi mesi prima, i casi sono tre:

  1. il tizio cambia auto ogni sei mesi;
  2. il tizio non può permettersi quell’auto;
  3. quell’auto è un limone, cioè un bidone.

Escludendo che Santander cambi assetto societario ogni sei mesi, consideriamo solo i casi 2 e 3. È possibile che Santander stesse avendo problemi (stava accumulando perdite importanti, l’anno è il 2008, quello di Lehman Brothers) e perciò volesse vendere asset per fare cassa. Se è questo il caso, dato che non siamo un ente di beneficenza, bensì una banca, dovremmo prendere Santander per la gola e offrire al massimomassimomassimomassimomassimo 6 miliardi, ma 5 miliardi era già troppo. Se invece Antonveneta è un bidone, offriamo al massimo 2-3 miliardi. Ma noi non siamo megalomani, né possiamo usare la carta di credito di papà per comprare una 500 al prezzo di una Ferrari.

MPS, invece, pare di sì: rastrella tutta la liquidità che trova e se la compra per 10 miliardi (o qualcosa di meno). A Santander non pare vero avere una plusvalenza di 2-3 miliardi per pochi mesi di lavoro. Plusvalenza che sale se consideriamo che Antonveneta all’epoca valeva poco più di 2 miliardi. Adesso vien fuori che potrebbe esserci stato un giro di tangenti a giustificare un tale falò di quattrini.

L’operazione Santorini riguarda prima Banca Intesa e poi i titoli di Stato italiani. MPS aveva stipulato un contratto con Deustche Bank concernente Intesa, se non ho capito male un equity collar, una combinazione di opzioni che permette di conoscere a priori la perdita massima e il guadagno massimo di un investimento. Come un collare per i cani, appunto: oltre la lunghezza del collare il cane non può andare, e così l’investimento. Senonché MPS non vuole iscrivere a bilancio la perdita relativa a tale contratto: aveva i bilanci già scassati dall’operazione Antonveneta, e aveva bisogno di denari da distribuire sul “territorio”, secondo le solite indicazioni politiche. Come un giocatore alla roulette che conosce poco le implicazioni della martingala, dopo aver perso una partita, MPS “raddoppia” la posta in quella successiva, e scambia quella perdita con un’altra operazione con DB, l’operazione Santorini, appunto. MPS paga 60 milioni a DB per ottenere 1,5 miliardi di prestito a scadenza 2018, e MPS garantisce i tedeschi dal rischio di perdita sui titoli di Stato italiani. Come prevedibile (per i tedeschi) il prezzo dei BTP comincia a salire, e le perdite subite da DB finiscono sul groppone di MPS, che pochi anni dopo decide di liquidare l’operazione in perdita. Si tratta di perdite più o meno uguali a quelle che non avevano voluto sopportare per la questione Banca Intesa, cui si aggiungono gli oneri relativi alla prima parte del contratto (il prestito di 1,5 miliardi). Forse era meglio alzarsi dal tavolo accettando di aver perso, piuttosto che continuare a debito e straperdere.

L’operazione Alexandria ha una dinamica simile, anche se con strumenti diversi: per evitare di dichiarare una perdita e non avere dividendi da distribuire sul “territorio”, MPS giunge a un accordo con la giapponese Nomura al fine di abbellire i propri bilanci. Come la martingala di cui sopra, piuttosto che ammettere la perdita su Alexandria (i famosi CDO, i titoli salsiccia tossici, quelli che anni addietro dicevo che erano finiti chissà dove e sarebbero esplosi chissà quando – eccoveli), MPS si accorda con Nomura per scaricare su quest’ultima tale perdita. In cambio MPS entra in un’altra operazione, che comprende uno scambio di attività (asset swap) e due pronti contro termine trentennali. In parole povere, MPS voleva spalmare la perdita di Alexandria su 30 anni, scambiando i CDO con BTP a 30 anni, trasformati in titoli a tasso variabile (l’asset swap). Dato che però MPS i soldi non ce li ha, se li fa prestare dalla stessa Nomura dando in garanzia i BTP, che dovrà in futuro riacquistare a un prezzo più elevato (il pronto contro termine). Ironia delle ironie, pochi mesi dopo i CDO aumentano di valore, mentre i BTP subiscono perdite enormi.

Fatto sta che, a furia di aumentare la posta in gioco, il portafoglio di MPS ha raggiunto dimensioni colossali, se rapportato alle attività totali della banca. Adesso, a dire la verità, le cose non vanno neanche così male per quel portafoglio, ma basta un niente per tornare a quando perdeva miliardi di euro. Il problema è che a fronte di tale gestione e delle perdite accumulate, il capitale della banca è stato in parte bruciato, e se le cose dovessero andare di nuovo peggio, c’è il rischio concreto di buttare altre banconote nel camino. Per questo MPS ha deciso di aumentare il proprio capitale sociale, anche a garanzia dei Monti bond, qualora la banca decida di utilizzarli.

Va ricordato che MPS, mentre oggi è guidata da banchieri per professione, all’epoca era guidata da un avvocato, Giuseppe Mussari, poi divenuto presidente dell’associazione che riunisce le banche italiane. Questo solo per fissare nella memoria che, se tale avvocato è arrivato ai vertici del salotto bancario italiano nonostante la sua innata capacità di passare come niente da un bagno di sangue all’altro, il sistema bancario italiano potrebbe avere più di un problema, e che il sistema delle fondazioni (politiche) che dominano lo scenario e difeso ieri sera da Fassina (PD), più che rifondato, andrebbe affondato. E poco interessa se, come diceva Monti, in altri Paesi come la Germania la commistione finanza-politica è ancora più diffusa e funziona meglio: questo semmai dimostra che i politici tedeschi qualcosa di finanza ci capiscono, i nostri no. In Germania si usano i soldi delle banche per finanziare progetti, imprese e famiglie, qui si usano per distribuire mancette di carta straccia sul territorio.

Per cui evitiamo di lanciare strali contro i derivati: essi non sono che uno strumento, come un martello, che posso usare per appendere un quadro o per spaccare crani. Il problema non sono i derivati (tra l’altro neanche troppo complessi: equity collar e asset swap non sono niente di così esoterico, se hai una vaga idea di che stai combinando, e i pronti contro termine non sono neanche un derivato).

Il problema è che la nostra classe dirigente farebbe fallire pure la banca del Monopoli.