Referendum, acqua: cosa chiedono i quesiti

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Domenica 12 e lunedì 13 giugno si torna alle urne per esprimere un voto per quattro quesiti referendari. Termometro Politico dedicherà questa settimana all’approfondimento dei temi oggetto dei referendum.

Oltre al nucleare e al legittimo impedimento, si vota anche per due quesiti – cosiddetti “sull’acqua pubblica” – il primo dei quali punta all’abrogazione di alcune norme contenute nel decreto Ronchi del 2009.

Entrambi i quesiti in questione sono stati promossi dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, a differenza degli altri due promossi dall’Italia dei Valori e da alcune associazioni ambientaliste. La natura dell’ente promotore ha contribuito, direttamente e indirettamente, a creare confusione nella campagna di comunicazione dei quesiti sull’acqua. Per capire meglio questo punto è bene entrare subito nel merito.

Il primo quesito (scheda colore rosso), denominato Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, si propone di abrogare l’art. 23-bis della Legge n. 133/2008 e successive modifiche, relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica.

In pratica si vuole cancellare la norma che affida, previa gara d’appalto ad evidenza pubblica, la gestione dei servizi pubblici locali (acqua, rifiuti, trasporti) a società pubbliche, private o  miste. Per le società miste dove i privati (scelti anch’essi tramite gara pubblica) detengano almeno il 40% del capitale non è necessaria la gara. Le società miste quotate in Borsa, inoltre, per non perdere il diritto alla gestione della risorsa pubblica, devono portare la quota di capitale pubblico al 40% entro giugno 2013, e al 30% entro dicembre 2015.

 

Il secondo quesito (scheda colore giallo), denominato Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito, si propone di abrogare l’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 limitatamente a quella parte del comma 1 che dispone che la tariffa per il servizio idrico è determinata tenendo conto dell’«adeguatezza della remunerazione del capitale investito».

In parole semplici, l’abrogazione eviterebbe che i gestori di servizio idrico ricevano il 7% del capitale investito come remunerazione adeguata allo sforzo economico fatto.

Alla luce dei due quesiti risulta evidente che l’ormai famoso slogan “sì all’acqua pubblica” sia fuorviante, sia per quanto riguarda la parola “acqua” sia per quanto concerne il termine “pubblica”. Questo perché non tutti e due i quesiti si riferiscono esclusivamente all’acqua: il primo, infatti, coinvolge tutti i servizi pubblici locali. Un’eventuale abrogazione riguarderebbe non solo il servizio idrico, ma anche lo smaltimento dei rifiuti e i trasporti pubblici. La natura dell’ente promotore, il Forum sull’acqua, ha sicuramente influito perché nella campagna referendaria si ponesse l’attenzione soprattutto sul servizio idrico, tralasciando gli altri servizi pubblici.

L’aggettivo “pubblica”, inoltre, farebbe pensare che qualcuno l’abbia aggiunto per indurre i cittadini a credere che il decreto Ronchi voglia privatizzare l’acqua. Ciò, evidentemente, non è vero: la proprietà dell’acqua è e resta pubblica (come esplicitato nel comma 5 dell’art. 23-bis L. n. 133/2008). L’obiettivo del decreto Ronchi non è privatizzare l’acqua ma favorire una maggiore presenza dei privati nella gestione della stessa.

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Cosa cambierebbe, se dovesse vincere il “sì” al primo quesito, rispetto alla situazione attuale? Tutto sta nelle modalità della gara d’appalto. Oggi, i comuni che vogliono mantenere la gestione pubblica dei servizi possono farlo in due casi: se riescono a dimostrare che è inutile indire la gara per motivi economici, sociali o ambientali del territorio di appartenenza (ottenendo in tal caso la delega prevista dal comma 3 dell’art. 23-bis L. n. 133/2008); se l’azienda pubblica partecipa alla gara e la vince. Nel caso in cui dovesse passare il “sì” i comuni possono affidare direttamente la gestione pubblica a un soggetto dell’amministrazione stessa (la cosiddetta gestione “in house”) senza dover indire una gara d’appalto. Questo meccanismo, fa notare Giorgio Santilli de Il Sole 24 Ore, potrebbe favorire una politica clientelare che in passato ha portato a casi eclatanti come la “Parentopoli” capitolina.

Infine, il capitolo più importante, quello delle tariffe e dei costi di bolletta. Se dovesse vincere il “sì” al secondo quesito, i gestori, siano essi pubblici o privati, non riceverebbero più il 7% del capitale investito, che di solito viene ammortizzato sulle bollette dei cittadini ma avrebbero comunque diritto alla «copertura integrale dei costi di investimento». Gli investimenti bancari e dei privati, a questo punto, verrebbero penalizzati e gli eventuali costi peserebbero tutti sulle spalle dei contribuenti. La cosa chiara è che i costi di gestione qualcuno li deve pur pagare. O attraverso le tariffe o attraverso la fiscalità, è sempre il cittadino a dover farsi carico delle spese. Sta a lui decidere se è meglio una bolletta dell’acqua relativamente economica (nel 2008/2009 la media nazionale era 1,21 €/m ³, decisamente più bassa di quella europea: 2,59 €/m ³) con scarsità di fondi per altri servizi come il welfare, o accettare un aumento di tariffa (e, si spera, di investimenti) che porti anche a una maggiore consapevolezza nell’uso del bene, evitando sprechi inutili.

Il Comitato promotore del Sì vuole abrogare la norma per evitare che i privati traggano profitto dalla stessa facendo aumentare i prezzi in bolletta. Partendo dal presupposto che i privati non hanno alcun potere decisionale sulle tariffe (c’è un’Autorità pubblica creata a tal scopo) se i prezzi delle bollette dovessero crescere non dipenderebbe né dal gestore privato né da quello pubblico, ma dai costi di gestione crescenti e dalla scarsità di fondi per far fronte a un vero e proprio disastro: circa il 30% dell’acqua, 2,61 miliardi di m ³ viene dispersa ogni anno, causando un costo di 2,5 miliardi annui per i cittadini. Che siano società private o pubbliche – la storia degli ultimi anni vede gestioni virtuose e fallimentari in entrambi i casi, in numero sostanzialmente uguale secondo i dati degli economisti Boitani e Massarutto – chi gestirà l’acqua dopo il referendum è chiamato a farlo in maniera consapevole e responsabile, cercando di arginare la vergognosa dispersione idrica nazionale.