E quorum fu

E quorum fu. Quando l’ottimismo della volontà ha la meglio sul pessimismo della ragione accade spesso che i numeri, le proiezioni e tutto ciò che ne consegue sono messi da parte di fronte alla massiccia partecipazione popolare di cittadini che si sono riappropriati della possibilità di scegliere. E di scegliere sui temi veri, sul merito, sugli atti concreti. In parole povere: sulla politica.

Il 57% di affluenza ai quattro quesiti referendari del 12 e 13 giugno possono segnare uno spartiacque nella storia di questo ultraquarantennale istituto. Unica isola di democrazia diretta nell’inevitabile disteso mare della democrazia indiretta. Uno spartiacque ben visibile se si considera che l’ultimo referendum abrogativo che ottenne il quorum fu nel 1995: oltre 16 anni fa. In questi sedici anni di acqua ne è passata sotto i ponti: dall’illusione del 1999 quando per lo 0,5% (con qualche polemica sulla trasparenza e autenticità delle liste elettorali) saltò l’abrogazione della quota proporzionale nel “Mattarellum”, passando per l’abolizione dell’articolo 18 nel 2003 e per i quesiti “eticamente sensibili” del 2005, contraddistinti da un oggettivo protagonismo della Conferenza Episcopale Italiana. Per arrivarea due anni fa quando, sempre di piena estate, si assistette ad un referendum sulla legge elettorale capace di mobilitare solo il 23,5% dello stesso corpo elettorale.

Che l’aria fosse diversa quest’anno lo si era effettivamente capito: notevole mobilitazione della cittadinanza, tesa ad ottenere un difficile risultato che necessitava di un impegno massimo, e un implicito traino offerto dalle amministrative di maggio hanno portato all’insperata affermazione del 57% che rende di fatto superfluo ai fini pratici qualsiasi considerazione della Corte di Cassazione in merito al conteggio dei voti degli italiani all’estero per quanto riguarda il quorum per il quesito sulla costruzioni di nuovi centrali nucleari.

Questo referendum può essere la rappresentazione plastica di come la legislazione sul quorum sia datata e a tratti ingiusta. Ma al tempo stesso ci fa capire che se esiste un problema in questo senso più che le mere leggi e le semplici norme occorre molto spesso cambiare mentalità. Una mentalità tesa a ricercare la scorciatoia per favorire il proprio orticello e tutelare rendite di posizione. Una mentalità che spinge dunque a sostenere, da parte dei detrattori dei quesiti, la scelta dell’astensione già abbastanza favorita da una percentuale di astensione cronica rispettabile anche alle elezioni politiche. Molto spesso appare la strada preferita dal punto di vista numerico ma anche la più consona dal punto di vista dell’immagine: l’onda lunga della raccolta firme, di per se sempre rispettabile se consegue il suo fine di indire un referendum, appare difficile da contrastare con una quanto mai onesta campagna per il No. Molto meglio la solita scorciatoia, dunque. Sprazzi di politica che devono quanto mai cambiare e che ben testimoniano come nella futura Italia occorra, prima che un sagace lavoro politico, un notevole e tortuoso lavoro pedagogico. Se non di pura educazione civica.

E quindi basta con questa politica dell’astensione. Viva il sano confronto e basta con questa mentalità che vede i sostenitori del No come coloro che tendono a rinunciare alla battaglia e, rassegnati alle proprie ragioni, e a vedere ineluttabilmente la possibilità del quorum avanzare.

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Uno spartiacque nella storia dell’istituto dunque. Ma assai più difficile risulta capire quanto possa trattarsi di uno spartiacque politico. Nei giorni scorsi fior di commentatori paragonavano l’entusiasmo di questi referendum ad altri momenti topici della storia politica italiana. Ai cambiamenti sociali, che la politica non aveva ancora del tutto compreso, avvenuti nell’Italia del ’74 che votava No all’abrogazione del divorzio. O alla rappresentazione plastica della “fine di un Impero” quando ci fu un’alta partecipazione al referendum del ’91 sulla preferenza unica. Con buona pace dell’ “andate al mare”, delle partite a scopone con gli amici in Irpinia e del linguaggio scurrile di bossiana memoria.

C’è da dire che Berlusconi è uno che non molla. E’ un uomo politico anomalo per varie ragioni e una di queste è che non è possibile spingerlo a fare un passo indietro. Se non si è fatto da parte, o se ha provato a resistere, dopo un 12 a 2 alle regionali (2005) o dopo una sconfitta nella roccaforte milanese (un mese fa) senz’altro riuscirà a vivacchiare e galleggiare anche dopo dei referendum sul merito delle questioni. C’è allora da aspettare la reazione di Pontida, la reazione della Lega. Stretta in una morsa quanto mai prima d’ora, costretta ad un lento logoramento accanto alla zavorra del Pdl. Col desiderio e la tendenza quasi anagogica di mollare tutto e di correre da sola. Magari come nel ’96, per far capire l’essenzialità del Carroccio all’alleato berlusconiano. Ma quanta paura, al tempo stesso, di perdere così le maggioranze negli enti locali e le presidenze di Piemonte e Veneto.

Da tutti i punti di vista, mentre il centrosinistra si rafforza sui suoi temi e la partecipazione civica ottiene una bella spinta, occorrerebbe coraggio nelle scelte politiche e partitiche. Ma se questo coraggio esista davvero, è lecito dubitarne.