Referendum: oltre il legittimo impedimento

riforma della Giustizia tribunale

Quando Berlusconi ammette, all’indomani del voto referendario, che gli italiani si sono espressi in modo netto “su tutti i temi della consultazione”, probabilmente il pensiero va soprattutto al quesito sul legittimo impedimento e meno su quello relativo al nucleare. Quello sul legittimo impedimento, infatti, si palesa come un voto dal carattere eminentemente politico, il cui significato è probabilmente più importante di quello tecnico-giuridico e costituisce pertanto un chiaro segnale di contrarietà alle cosiddette leggi ad personam. Si noti che in vita rimaneva soltanto la possibilità di far valere, tra i vari motivi “d’impedimento”, quelli previsti dal comma 1 della legge, ovvero “il concomitante esercizio di una o più delle attribuzioni previste dalle leggi e dai regolamenti” nonché le funzioni “coessenziali” dei vari impegni di un Presidente del Consiglio. A fronte del risultato referendario questo non sarà più possibile.

Avevamo già notato che con una maggioranza di Sì in risposta al quesito relativo al legittimo impedimento, questo avrebbe modificato solo lievemente il contenuto della norma di cui si chiedeva l’abrogazione, dopo l’intervento della Consulta. Dunque, l’esito referendario si è configurato, nella sostanza, come un chiaro messaggio popolare contro ogni tentativo di strumentalizzazione dei problemi della giustizia. Sicuramente su questo versante l’Italia necessita urgentemente di riforme, forse anche “epocali”, in grado di configurare un diritto processuale autenticamente giusto, rispettoso delle esigenze investigative così come dell’effettiva parità tra accusa e difesa, in grado di tutelare la sicurezza dei cittadini ma anche la dignità della persona e assicurare adeguate garanzie ai diritti di libertà del singolo individuo. Molto lavoro aspetta quindi ancora i parlamentari su questo versante, e quel che è certo è l’auspicio di un tramonto sia delle leggi ad personam, forse oggi definitivamente delegittimate, sia delle perduranti polemiche e contrapposizioni circa il “riequilibrio del potere giudiziario” che, come ha ricordato il primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, tolgono solo attenzione, tempo ed energie alla soluzione della crisi di efficienza della giustizia italiana.

Dal punto di vista più prettamente giuridico, la maggioranza del popolo italiano ha deciso che fosse sufficiente la disciplina già prevista dal nostro codice di procedura penale all’articolo 420-ter, secondo cui: “Quando l’imputato, anche se detenuto, non si presenta all’udienza e risulta che l’assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d’ufficio, rinvia ad una nuova udienza e dispone che sia rinnovato l’avviso all’imputato, a norma dell’articolo 419, comma 1”. Dunque, se, come già fatto in vista del voto referendario, si considerano gli effetti della sentenza della Corte costituzionale dello scorso gennaio (sent. n. 23 del 2011), ci si rende facilmente conto che, di fatto, l’esito del referendum sul quesito relativo al legittimo impedimento poco incide sulle possibilità che il Premier ha e continuerà ad avere per non presentarsi alle udienze che lo vedono imputato. Infatti, se l’effetto abrogativo ha riguardato la previsione relativa all’elenco di ipotetici impegni del Presidente del Consiglio dedotti da leggi e regolamenti, nulla toglie validità al richiamo che la stessa Corte costituzionale ha fatto alla “leale collaborazione” tra poteri (principio bidirezionale, si veda il punto 5.2 del considerato in diritto della sent. n. 23 del 2011), per cui se il Presidente del Consiglio è tenuto a “programmare i propri impegni tenendo conto dell’interesse alla speditezza del processo che lo riguarda, riservando a tale scopo spazio adeguato nella propria agenda”, il giudice da parte sua dovrà rinviare l’udienza in caso di impedimenti “riconducibili ad attribuzioni coessenziali alla funzione di governo e in concreto assolutamente indifferibili”.

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La domanda a questo punto è: l’espressione della volontà popolare del 12 e 13 giugno scorsi sarà in grado di determinare effettivamente la fine di una stagione in cui la giustizia poteva non essere uguale per tutti? Rispondere in maniera netta non è facile. Si ricordi anzitutto il ddl sulla prescrizione breve, il cui iter è stato articolato e complesso. Dopo l’approvazione da parte della Camera, che ha profondamente modificato il testo originario, il ddl è tornato ora al Senato con significative modifiche. Già dall’andamento dei lavori parlamentari in merito potrebbe evincersi qualche indicazione circa l’effettiva possibilità che di leggi ritagliate su misura per la tutela di “certe” persone non se ne adottino più: infatti, semmai il Parlamento riuscisse ad approvare il ddl sulla prescrizione breve, non è detto che il Presidente della Repubblica sarebbe disposto a firmarlo. A condire di un ulteriore elemento gli scenari della futura politica italiana in tema di giustizia è poi anche l’appello che arriva dall’Europa: il Group of States against corruption di Strasburgo si è pronunciato duramente contro il governo italiano per ciò che riguarda le norme (o le non norme) in materia di corruzione. L’ultimo decalogo del Greco era del 2009 e se ieri le critiche riguardavano l’inadempienza, oggi si tratta del via libera di aprile dato dalla Camera al ddl prescrizione breve che, data la natura del fenomeno corruttivo, spesso scoperto dopo la commissione del fatto (il che già importa una riduzione dei tempi), comporta un reale rischio di fallimento dei relativi processi.

Intanto, ieri è ripresa la discussione generale sulla riforma della giustizia alla Camera: le commissioni I e II hanno ascoltato i vertici della magistratura e il vicepresidente del CSM e, mentre questi parlavano di “decostituzionalizzazione delle garanzie oggi previste” ponendo accento sulla nuova figura del pubblico ministero, la stessa maggioranza di centrodestra, nelle persone del relatore, Gaetano Pecorella, e capogruppo, Peppino Calderisi, hanno gravemente valutato l’assenza del ministro della giustizia, Angelino Alfano.

Inoltre, si noti che dopo l’incidente di qualche settimana fa, che ha visto il governo battuto al Senato per la prima volta, la maggioranza si è vista costretta ad accettare i “consigli” di Pd e Idv in merito al decreto anticorruzione (per cui i commissari c.d. “antimazzette” verranno nominati con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del Ministro della funzione pubblica, dopo il voto favorevole di una maggioranza qualificata delle commissioni parlamentari competenti, anziché essere nominati dal Presidente del Consiglio), e ha pure dovuto fare dietrofront rispetto alla contestatissima norma che prevedeva la concessione del demanio del litorale per venti anni e all’emendamento della Lega sui bonus validi per le graduatorie degli insegnanti residenti, disposizioni contenute nel decreto sviluppo, prossimo alla conversione in legge.

Per concludere, oggi la Camera ha votato la questione di fiducia posta dal Governo sull’approvazione, senza subemendamenti ed articoli aggiuntivi, dell’emendamento Dis. 1.1, interamente sostitutivo dell’articolo unico del disegno di legge di conversione del decreto Sviluppo (d.l. n. 70 del 2011). Quindi, per poter capire come andrà a finire in tema di giustizia, e non solo, bisognerà attendere ancora un po’.