Referendum: un istituto da riformare?

referendum astensione

Approfondimento in due puntate sull’istituto del referendum abrogativo

 

Il referendum del 12 e 13 giugno ha raggiunto il quorum e anche in modo netto, ma resta viva la necessità di riformare tale istituto. Le ragioni che inducevano a chiedere una sua revisione permangono, anzi forse ne escono persino rafforzate. Ma andiamo con ordine.

LE RAGIONI DELLA PREVISIONE DEL QUORUM

In un articolo apparso proprio qui su Termometro Politico si legge:

Quale fu la ratio del suo inserimento? Perché, per esempio, introdurre il quorum per il referendum quando questo, per le elezioni (che pure determinavano chi avrebbe avuto diritto di parola su tutte le leggi per la durata di un’intera legislatura, non su qualcuna), non era previsto? Le motivazioni, principalmente, erano due. La prima, era che bisognava garantire che solo le leggi di reale interesse collettivo fossero sottoposte a referendum. La seconda, invece, era quella di costringere innanzitutto comitati promotori a informare più persone possibile dell’esistenza del referendum, e, contemporaneamente, imporre, sia a questi, sia a coloro che ai vari quesiti referendari erano contrari, di informare i cittadini per permettere loro di crearsi un’opinione e dunque decidere, di volta in volta, con la maggior consapevolezza possibile.

Curiosamente, nonostante gli scontri anche durissimi che si ebbero durante i vari dibattimenti, nessuno di questi riguardò la questione del quorum: l’ipotesi che questo limite venisse sfruttato per delle campagne di boicottaggio venne presa in considerazione solo marginalmente, tendenzialmente ignorata; l’importanza dell’esercizio del diritto di voto appena riconquistato, la volontà, comune a tutti gli schieramenti politici, di portare avanti un processo di educazione e responsabilizzazione politica delle masse affinché certe esperienze come l’appena conclusa dittatura fascista non si potessero più replicare, resero quella del boicottaggio, agli occhi dei Costituenti, un’ipotesi remota.

Ricordiamo le parole di Aldo Moro in Assemblea costituente il 16 ottobre del 1947 sul valore del  referendum:

«Il presupposto dal quale partiamo nell’atto di stabilire, come abbiamo stabilito stamane, il referendum è questo: la possibilità di un disaccordo, fra la coscienza pubblica e le Camere che di essa dovrebbero tener conto nell’attività legislativa. Quindi, è inutile richiamarsi alle Camere, è inutile dire che esse intendono bene qual è il loro dovere di fronte ad una legge la quale non corrisponde alla coscienza pubblica. Ammettere il referendum significa ritenere appunto la possibilità di questo disaccordo, la possibilità di questa minore comprensione da parte delle Camere nei confronti di una evoluzione della coscienza pubblica, la quale può manifestarsi ed operare fin dal primo momento in cui la legge è entrata in vigore…».

 

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Infine segnaliamo una riflessione di Gianfranco Pasquino (Professore di Scienza politica e autore del volume La rivoluzione promessa. Lettura della Costituzione italiana):

«L’Art. 48 della Costituzione italiana è limpido e inequivocabile: il voto “è un dovere civico”. L’Art. 75 sul referendum abrogativo non è in contraddizione con il 48, ma certamente non codifica e non santifica in nessun modo l’astensione. Neppure la riconosce come “diritto”, semmai come facoltà. Chi si astiene concorre all’eventuale fallimento del referendum per mancanza di quorum, ma certamente non ha adempito al dovere civico di votare e neppure al compito politico di difendere esplicitamente e con un “no” secco e visibile le leggi oggetto del referendum».

LE PREVISIONI DEL COSTITUENTE SONO STATE DISATTESE

L’istituto del referendum abrogativo ha subito un progressivo svuotamento del suo senso e significato originari.

Uno dei principi fondanti della democrazia è che i cittadini e i politici che li rappresentano debbano confrontare le proprie posizioni in modo aperto e affrontare la scelta dopo aver discusso e difeso pubblicamente le proprie ragioni. Questa scelta in un sistema democratico si estrinseca nel voto. Da tale principio discende l’idea che una elevata partecipazione dei cittadini alle scelte sia un bene in sé perché favorisce una miglior rappresentazione della “volontà generale”. La partecipazione al voto è così diventata una manifestazione del grado di civismo della comunità.

Sotto questo aspetto è paradossale che ci siano partiti o forze politiche che di fronte a un quesito referendario invitino l’elettorato a non votare. Si assiste al fatto che una parte consistente, non dei cittadini ma del corpo politico, fugge dal confronto e invita al non voto. Lo scopo è che non venga raggiunto il quorum del 50 per cento più uno degli aventi diritto e la decisione penda quindi da una parte – lo status quo, il mantenimento della legge esistente.

E’ quello che è accaduto oggi con i referendum sul nucleare, sull’acqua e sul legittimo impedimento ed è quello che era già accaduto ripetutamente in passato con inviti talvolta da destra, talaltra da sinistra e altre volte ancora da ambienti cattolici. Questo giugno è dunque andato in scena un nuovo ed ennesimo atto della fiera dell’ipocrisia all’italiana: molti di quelli che in passato hanno fatto una campagna esplicita per l’astensione oggi che i quesiti erano graditi non hanno esitato a pontificare sul dovere civico del voto, si sono vilmente erti a paladini del sacro valore della democrazia.

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Da quando è invalsa la pratica da parte dei contrari ai quesiti di fare campagna per l’astensione invece che per il “no” c’è stato il venir indirettamente meno della segretezza del voto. La tua partecipazione, che sia espressa con un “si”, con un “no”, con una scheda bianca o nulla, contribuisce in egual misura al raggiungimento del quorum. Sostanzialmente quindi vale come un “si”: dato che gran parte di chi è contrario ai quesiti si astiene è molto probabile che i “si” prevalgano sui “no”. Siamo così giunti al paradosso che chi esprime il proprio dissenso votando “no” – decidendo pertanto di “non barare”, di agire nel quadro dei principi supremi della democrazia – nella vulgata comune venga considerato un buontempone che “non ha capito come funzionano le cose”, un ingenuo sprovveduto che “non sa far di conto”. E’ trattato insomma come un “utile idiota”. Dicono: “che non lo capisci che aiuti chi non la pensa come te a raggiungere il suo obiettivo”? Allora io domando: ci rendiamo conto che i referendum sono stati sviliti ad una sfida per il quorum? Ci siamo accorti che il pomeriggio del 13 giugno tutti eravamo a guardare il dato dell’affluenza e non la percentuale dei “si” e dei “no”? Di questo passo succede che il fatto stesso di avere sulla tessera elettorale il timbro classificherà automaticamente il possessore come un sostenitore del “si”, perché chi è per il “no” sta a casa.

Il punto è evitare che chi è contrario possa sommare ai suoi numeri quelli di chi è disinteressato, o meglio evitare che l’ astensionismo “motivato e strategico” – ammesso e non concesso che questo sia lecito – si sommi con quello fisiologico. Chi invece – dimostrando di avere una coscienza scrupolosa e una grande dose di umiltà – si rende conto di essere sostanzialmente non preparato, non sufficientemente informato e consapevole sull’oggetto dei quesiti, cosa dovrebbe fare? Probabilmente votare scheda bianca, perché mai astenersi? Chi si trova in questa situazione infatti non è disinteressato all’argomento, tutt’altro. Costui però – per mancanza di conoscenze specifiche e approfondite dell’argomento – non si sente in grado di esprimere un voto favorevole o contrario alla abrogazione di una certa norma. Dunque dovrebbe avere l’orgoglio di non voler essere computato nel calderone dei “disinteressati” che si astengono.

Molti di quelli che promuovono il “si” elevano il quorum a “fine ultimo” che giustifica qualsiasi mezzo. I referendum di questo giugno lo hanno confermato. Questa campagna referendaria ha profuso una grande quantità di inesattezze e forzature, che hanno dato vita nella mente delle persone a un mostro virtuale. Alla stragrande maggioranza della gente che è andata a votare si è fatto credere che i due quesiti sull’acqua fossero “contro la privatizzazione” e “contro l’ingiusto profitto”. Mi dispiace per chi in buona fede lo ha creduto e tuttora lo crede, ma purtroppo (o per fortuna) questi slogan propagandavano falsità.

Viceversa i contrari alla abrogazione che optano per un’astensione strategica, evidentemente, non promuovono alcuna campagna di informazione, preferiscono far passare sotto silenzio la consultazione referendaria affinché il quorum non venga raggiunto. Non confutano quello che sostengono i comitati per il “si”, semplicemente non se ne curano.

In questo caso, pertanto, i cittadini perdono esattamente la metà dell’informazione in proposito, si ha una campagna unidirezionale (quella del “si”) che, in pratica, può dire qualunque cosa. Tanto non c’è nessuno ad avere qualcosa da ridire, chi sta dall’altra parte della barricata si guarda bene dall’intervenire nel dibattito. O meglio, dice con ghigno beffardo e compiaciuto: “meno se ne sa, meglio è”.

C’è poi la questione del pessimo stato del sistema informativo cosiddetto pubblico in Italia a rendere le cose ancora peggiori. La Rai ha reso un servizio quasi inesistente. Per il referendum del 12 e 13 giugno infatti doveva essere tutto pronto il 4 aprile. Invece gli ostruzionismi del governo hanno fatto slittare tutto al 4 maggio, insomma si è perso un mese di campagna elettorale. Peraltro quando l’informazione “è partita” è stata talvolta fatta in modo superficiale e poco professionale. Sono così diventate icone di questioni come i servizi pubblici e il piano energetico nazionale, non scienziati ed economisti, ma un comico qualunquista e un cantante molleggiato. Una democrazia sana tuttavia si basa su cittadini perfettamente informati, non dimentichiamolo. E noi da questo punto di vista siamo anni luce indietro.