Intervista a Marco Calamai, l’allenatore che ha portato la pallacanestro ai disabili

Marco Calamai. A dicembre dello scorso anno, in occasione della Giornata internazionale della disabilità, ha ricevuto dal Presidente Napolitano l’Onorificenza al Merito della Repubblica Italiana per l’impegno profuso nelle attività con persone disabili.

Prima giocatore di pallacanestro, poi allenatore di squadre prestigiose, Calamai a un certo punto della sua carriera ha deciso di abbandonare lo sport professionistico, che imponeva difficili compromessi. Lontano dalle luci dei palazzetti, il coach toscano ha scoperto una nuova vocazione, meno remunerativa ma sicuramente più gratificante: ha proposto la pallacanestro, uno sport di squadra, a ragazzi disabili, fino ad allora abituati a svolgere esclusivamente attività individuali. Si è trattato di una vera e propria rivoluzione, che la letteratura in materia di disabilità all’epoca non concepiva.

Dopo molti anni di lavoro nei “sottoscala”, il contributo di Calamai viene finalmente riconosciuto. Sua è anche l’idea, inconcepibile secondo i normali schemi della competizione sportiva, di far giocare ragazzi normodotati insieme a ragazzi disabili, tradotta nella fondazione della squadra chiamata Fortitudo Overlimits. Marco Calamai è autore del libro Uno sguardo verso l’alto e sul suo “metodo” si basa l’apertura di circa 30 centri in Italia. Di seguito un contributo video e l’intervista.

Quale è stato il Suo approccio alla pallacanestro? Come è diventato giocatore di basket, prima, e allenatore, dopo?

Ho cominciato con la società Ponte Rosso Firenze, giocavo sul campo all’aperto della parrocchia. Ero molto promettente, pur avendo solo tredici anni. Ho giocato per due anni a Firenze, prima di trasferirmi a Bologna. Da giocatore ho avuto varie esperienze, fino ad arrivare alla serie A. Poi, a vent’anni, per mantenermi agli studi ho affiancato all’attività di giocatore quella di allenatore. Avevo frequentato il liceo classico e avevo deciso di studiare filosofia all’università. Ho continuato a giocare fino a ventisei anni, quando ho fatto la scelta definitiva di allenare soltanto. Volevo fare l’insegnante e l’allenatore di pallacanestro.

Che cosa Le ha insegnato lo sport nel bene e nel male? Quali sono gli aspetti positivi e negativi che ha riscontrato nella Sua esperienza?

A tredici anni ero un ragazzo molto più timido di oggi, molto complessato dal fatto di essere miope, cosa che, tanti anni fa, senza lenti a contatto e con occhiali spessi, mi limitava parecchio. Quindi poter giocare con dei compagni, spogliarsi insieme e vedere che il mio corpo era fatto come quello degli altri, vedere che i miei problemi erano i problemi degli altri, condividere un progetto, una causa comune, tutto questo mi ha aiutato ad aprirmi, a sbloccarmi. Lo sport mi ha insegnato il sacrificio, la lotta con sé stessi, a superare i propri limiti, a stare insieme agli altri. Gli aspetti negativi li trovati nel fatto che lo sport a livello agonistico faccia male. È eccessivamente stressante e fa invecchiare precocemente. Quando sono diventato allenatore quello che mi ha infastidito è stata l’intrusione in ambito sportivo di figure come gli agenti e i procuratori dei giocatori, che cominciavano a prendere piede negli anni Ottanta e Novanta, e che, per colpa di presidenti e dirigenti deboli, condizionavano l’andamento stesso della squadra. Era un segno di debolezza che le società già mostravano. Poiché non avevo la capacità di cambiare la mentalità dello sport professionistico, me ne tirai fuori. Con un salto nel vuoto straordinario, perché intanto avevo smesso anche di insegnare a scuola.

Quando è avvenuto l’incontro con i ragazzi diversamente abili e come è nata l’idea di allenarli?

L’incontro con i ragazzi disabili dell’associazione “La lucciola” è stato la conseguenza della mia scelta. In passato li avevo visti altre volte. A metà anni Novanta li ho rivisiti e ho avvicinato la neuropsichiatra che li seguiva, la dottoressa Emma Lamacchia. Lei faceva convivere nei suoi centri estivi e invernali ragazzi con tipologie molto diverse di disabilità: ragazzi con paralisi cerebrale, ragazzi Down, ragazzi con psicosi, ragazzi autistici. Notai che facevano attività individuali, come il nuoto e l’equitazione. Chiesi alla dottoressa di fare un allenamento con loro. E lei, dopo qualche titubanza iniziale, mi permise di fare un allenamento con la palla, più difficile di un allenamento individuale, ma più gratificante. Dal primo allenamento è nata l’idea di sviluppare un progetto, che lei e il presidente della Federazione Pallacanestro, Petrucci, hanno appoggiato. Siamo nati in seno alla Federazione Pallacanestro e non a quella disabili, che oggi si chiama CIP, Comitato Italiano Paralimpico, cioè già nell’alveo di una Federazione cosiddetta di normodotati.

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Quindi è nata l’idea di far giocare insieme ragazzi disabili e normodotati. Cosa insegna questa integrazione agli uni e agli altri?

È un processo su due binari. Il ragazzo disabile vede il normodotato che gioca con lui in partita come un esempio, un punto di riferimento, acquista sicurezza ed esempi positivi a cui tendere. Il normodotato sente di poter essere di aiuto a un altro, di poter insegnare qualcosa. Sono contrario alle generalizzazioni sugli adolescenti che li vedono come disimpegnati, poco emotivi, asettici, menefreghisti. La verità è che viviamo in un mondo malato, dove non ci sono progetti di vita veri, dove tutto è tecnologico, stereotipato e meccanizzato. Ma se si dà a questi ragazzi un progetto di vita vera, nonostante non si guadagni nulla e si rischi persino di prendere una brutta risposta o una spinta da un ragazzo impaurito, il loro atteggiamento cambia. Abbiamo avuto il riscontro dalle famiglie. Le mamme dei ragazzi normodotati mi ringraziano perché i loro figli, che praticamente rinunciano a due ore di studio per allenarsi, non rispondono più male e mangiano tutto.

Quali sono state le Sue più grandi soddisfazioni?

Un esempio è Sara, una bambina di dieci anni che non aveva mai parlato. Alla fine di un allenamento una palla l’ha colpita ad una gamba e le ha scatenato il pianto. Con un esercizio di palla accarezzata sulle gambe l’ho riportata al sorriso. Lei mi ha condotto nell’altra sala e mi ha fatto vedere che sapeva tirare a canestro, salendo su un tavolo. Prima di andar via, quando l’ho salutata, come tante altre volte, lei mi ha risposto. Non aveva mai detto una parola in dieci anni di vita. E da lì in poi ha parlato.

Quali sono i Suoi progetti per il futuro?

Desidero entrare in più stretto contatto con le realtà europee di gioco e disabilità per internazionalizzare questa progettualità. Vorrei che ci fosse sempre più integrazione, che ogni società di normodotati accogliesse ragazzi disabili. Vorrei che le Paralimpiadi scomparissero e che ci fosse un’Olimpiade unica, dove tutti possano partecipare, che il villaggio olimpico fosse unico per disabili e normodotati e che ognuno partecipasse alle competizioni per i tempi che fa, per le capacità che ha, e non perché è segnato da una diagnosi. Tutti siamo uguali nella diversità. Uguali nei diritti e diversi nelle competenze.