Luci e ombre delle proposte di Maria Chiara Carrozza sull’università

In questi giorni il governo di Enrico Letta sembra bloccato dai difficili equilibri politici della sua maggioranza, tanto che la sua stessa sopravvivenza, allo stato attuale delle cose, sembra garantita proprio dalla stagnazione delle proposte strategiche e dall’impossibilità di uscire dall’impasse con soluzioni alternative. Ci sono però alcuni ministri che cercano di portare avanti una linea d’azione concreta, quantomeno per mettere insieme nel loro settore di competenza una proposta progettuale da realizzare per affrontare problemi non più rinviabili.

Uno di questi casi è quello del ministro per l’Istruzione, l’Università e la Ricerca, Maria Chiara Carrozza. Direttrice fino alla sua elezione in Parlamento della seconda scuola d’eccellenza pisana, la Scuola superiore “Sant’Anna”, e forte quindi di un’esperienza professionale “sul campo” nella direzione di uno degli istituti italiani più rappresentativi a livello internazionale, la docente aveva deciso di impegnarsi in politica fin dall’inizio per occuparsi di formazione e di ricerca, e pur dopo diverse peripezie solo in parte prevedibili fino alle elezioni di febbraio, ha finito per trovarsi nel posto a cui sostanzialmente aspirava. Certamente, gli equilibri politici di maggioranza in cui opera sono profondamente diversi da quelli auspicati; tuttavia, la aiuta il fatto che il Partito democratico sia stato sostanzialmente l’unica forza politica, tra quelle che attualmente sostengono l’Esecutivo, a impegnarsi seriamente in una riflessione sul futuro della scuola e soprattutto dell’università italiana.

Il PDL si muove infatti ormai su proposte spiccatamente settoriali che ricompattino il proprio consenso al momento opportuno, e ha dimostrato ormai senza nemmeno tentativi di fingere che la sua priorità è la sicurezza del proprio leader sul piano giudiziario. La coalizione centrista raccolta attorno a Scelta Civica non ha oggi un potere contrattuale sufficiente a intervenire sulla determinazione delle politiche pubbliche di settore, ma comunque i suoi esponenti di spicco hanno chiarito che il loro atteggiamento verso l’istruzione superiore è semplicemente quello improntato a una riduzione delle risorse e degli effettivi, dettata dalla volontà di adeguarsi a un sistema economico che non sfonda in settori ad elevato valore aggiunto in termini di competenze e capitale umano, più che dal tentativo di invertire questa tendenza.

Così nella sua più recente uscita pubblica, l’incontro del 27 giugno con i sindacati di scuola e università, il ministro ha potuto sostanzialmente ribadire la linea d’azione che aveva già espresso partecipando con un ruolo di primo piano alla redazione della proposta programmatica democratica sull’università e la ricerca, apparsa sul sito ufficiale del partito lo scorso 14 febbraio. Da queste prese di posizione si può dunque partire per un’analisi degli obiettivi che il MIUR si propone per i prossimi mesi nel campo degli studi superiori e dell’attività di produzione e diffusione della conoscenza scientifica e dell’alta cultura.

In sostanza le proposte principali per invertire la tendenza discendente della nostra vita universitaria sono:

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In tutto questo, credo di poter leggere la benefica influenza di un gruppo di lavoro in cui la Carrozza ha avuto un ruolo di rilievo, sia per la migliore conoscenza di alcuni aspetti della vita dell’organismo-università dal suo interno, sia per la presenza di spunti che da tempo rappresentano le punte più avanzate della riflessione sull’università in atto in Toscana, regione in cui formazione superiore e ricerca scientifica hanno un ruolo sociale ed economico forse unico in Italia, e che non a caso riesce a ottenere risultati sempre relativamente buoni per la qualità dei servizi del diritto allo studio, per l’offerta dottorale e per la collocazione internazionale dei suoi atenei di punta. Si tratta di un passo in avanti rispetto alla genericità delle prese di posizione di cui si era spesso reso responsabile i passato Marco Meloni, nei fatti incapace di uscire dalle retoriche sul “merito” e sull’“eccellenza” che già tanti danni ha prodotto in questi anni, ma abbastanza generiche da inglobare tutta la vasta serie di interessi e pulsioni contrastanti che il PD cerca di coagulare attorno a sé nel mondo universitario.

Detto questo, in più casi gli strumenti e i percorsi che si intendono mettere in opera per il conseguimento delle finalità prefissate mi lasciano un po’ perplesso, sia quando sono chiaramente esplicitati, sia soprattutto quando sono coperti da un velo di oblio che, generalmente, serve a nascondere incertezze e preoccupazioni di fronte alla necessità di un supplemento di dibattito e di contrattazione tra le parti interessate.

Per cominciare, il problema dei problemi: partendo dal presupposto che occorre rispettare vincoli di bilancio (che ce li abbiano imposti è irrilevante: con questo debito, non chiudere tutti i prossimi trent’anni con un saldo positivo nel bilancio sarebbe semplicemente da incoscienti, e forse il fatto che il resto del mondo si rifiuti di finanziarci se non a condizioni a prova di bomba è quasi un bene), e tenendo conto che non si può pensare a un ulteriore aumento del carico fiscale se non nell’ambito di una riforma generale delle modalità di imposizione che richiederebbe anni, i soldi per investire in conoscenza da dove arriveranno? In altri termini, quali altre voci di spesa saranno tagliate senza pietà? Quali settori dipendenti dalla benevola concessione di soldi statali dovranno soffocare in una lunga e dolorosa agonia? Quali elettori, quindi, dovranno evitare come la peste di votare PD perché dalla loro morte dipenderà la sopravvivenza di strutture universitarie considerate strategicamente più importanti? Evidentemente, la gerarchia delle priorità di chi dovrà essere salvato dagli stanziamenti dei prossimi anni e di chi dovrà perire è ancora da fare, e sarà oggetto di un prevedibile tira-e-molla tra i ministeri, che tradizionalmente in Italia hanno come compito privilegiato garantire voce in capitolo a chi supporta il ministro in carica e le sue strutture di consenso. Un primo abbozzo di soluzione per andare oltre questa guerra di parrocchie sembra essere l’istituzione di un’Agenzia di programmazione e finanziamento della ricerca, elemento su cui si dovrà basare un più ampio coordinamento intergovernativo delle politiche di ricerca prima gestite da dicasteri diversi. Questo lavoro di armonizzazione potrebbe anche rendere meno asfittiche le modalità di gestione del problema degli istituti di produzione della conoscenza, ma i criteri di applicazione sono descritti in modo insufficiente, e tutto sembra più un auspicio che un autentico spunto programmatico già pronto per la prova dei fatti.

Sulla questione del dottorato di ricerca, al di là dell’individuazione di alcune criticità fondamentali, restano irrisolti alcuni punti di primaria importanza sul piano concreto. Si vuole chiarire, finalmente, che i dottorandi di ricerca vivono un percorso di formazione, e che quindi è necessario rendere questo percorso in primo luogo il più efficace e competitivo possibile sul piano dello sviluppo di un ventaglio di competenze solido e versatile, evitando così di trasformare i giovani laureati che scelgono l’opzione dottorale in “ricercatori usa e getta” da usare semplicemente come uomini di fatica ai gradini più basso della catena gerarchica di un progetto di ricerca. Tutto questo dovrà naturalmente comportare, e lo si dice a chiare lettere, l’utilizzabilità della formazione dottorale in tutto il mondo delle occupazioni ad alto coefficiente intellettuale. I modi in cui ai dottori saranno aperte le opportunità professionali lasciano perplessi, visto che non si va al di là di un riconoscimento del titolo di studio nei concorsi. Ciò da un lato è mortificante, visto che il dottore di ricerca deve potersi affermare in quanto più competente degli altri in alcuni ambiti professionali, eventualmente a scapito di chi quelle competenze non ha, non certo perché una legge obbliga alla finzione di attribuire forzosamente un valore a un pezzo di carta. Ma è anche in netta controtendenza con l’idea, secondo me buona proprio perché pragmatica su un tema troppo spesso ideologizzato, di “eliminare l’uso distorto” del “valore legale del titolo di studio” che troppo bene conosciamo nelle selezioni pubbliche. Pure la differenza all’apparenza quasi nulla nel regime contrattuale tra i dottorandi (che sono studenti) e i ricercatori ai primi livelli di carriera (che sono professionisti) sembra contraddire quanto detto in precedenza sulla ricerca di un “vero ruolo” per il Ph.D., e sembra piuttosto voler accontentare le associazioni rappresentative che, al contrario, vedono in esso l’unica funzione di selezionare ricercatori in pectore nei fatti già inseriti nelle carriere accademiche al momento della vittoria del posto dottorale, anche a costo di ridurre al minimo il numero di posti disponibili in relazione alle disponibilità dei ruoli.

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Infine un punto dolente caratteristico, per il partito che storicamente assomma i riferimenti politici “storici” delle corporazioni universitarie più fameliche, è quello della gestione del reclutamento. Al di là delle buone intenzioni, alcuni nodi che già i pasticci gelminiani non avevano risolto sembrano ancora accuratamente evitati. Il (sicuramente benefico) incentivo alla mobilità tra sedi, elemento necessario per dare sostanza all’autonomia gestionale degli atenei e per dare spazio a strategie di miglioramento della propria offerta di servizi da parte di tutte le università, sembra pensato esclusivamente attraverso l’imposizione di obblighi e proibizioni, col classico tentativo all’italiana di scimmiottare per decreto le pratiche di carriera e di selezione del personale che nel resto del mondo avvengono semplicemente perché così vanno le cose in un sistema aperto. I tecnicismi su ruoli e fasce per gli strutturati non pongono neppure il problema delle migliaia di ricercatori le cui chiassose richieste di aumento di stipendio e di considerazione sociale stanno bellamente chiudendo la strada a quei precari a cui, a parole, si vogliono aprire le porte. Le garanzie occupazionali degli assunti continuano (vista l’assenza di soluzioni al problema) ad essere del tutto sganciate dalla qualità e dall’utilità del loro servizio, nonostante la volontà di procedere a un ulteriore miglioramento delle procedure di valutazione delle sedi, che dovrebbe avere come prerequisito la possibilità che le sedi valutate si liberino dei pesi morti della cui presenza a libro paga non sono responsabili. Del resto, un serio sistema di valutazione ex post per orientare l’assegnazione dei fondi governativi dovrebbe essere accompagnato da una maggiore libertà d’azione dei dipartimenti nel comporre il proprio corpo docente e ricercatore, eventualmente pagandone le conseguenze con chiusure di rubinetto e successivi commissariamenti nei casi estremi. E invece si insiste sui “bandi nazionali” per ogni tipo di selezione, che non sono solo un ingenuo retaggio dell’idea che all’università si assume male perché i “baroni” sono cattivi e che quindi rendendo ancor più arzigogolato, lungo ed elefantiaco il procedimento di assunzione le cose miglioreranno perché i “baroni” non ci capiranno più niente.

Su questo tema, inoltre, l’esigenza dominante sembra quella di non toccare i ruoli acquisiti e l tutele sullo status degli assunti, sui quali evidentemente i sindacati sono pronti a ringhiare. La conseguenza nemmeno troppo difficilmente prevedibile di questo atteggiamento è che, non diversamente dal 2010, tutte le strettoie finanziarie e valutative del processo di adeguamento degli atenei finiranno per gravare sulle spalle di chi deve ancora essere assunto. L’uscita da questa strettoia, su un tema che per tutta l’impalcatura accademica italiana è assolutamente essenziale, rappresenterà la vera necessità ineludibile, e quindi il vero banco di prova del lavoro del ministero.