Le variopinte sfumature di piazza Tahir

Piazza Tahir – Un volto nuovo per la democrazia

L’annuncio del Presidente egiziano ad interim Adly Mansour è giunto solo la scorsa settimana. Porta il nome di Hazem El Beblawi, l’economista liberale di fama internazionale, già Consigliere economico presso il Fondo Monetario Arabo e le Nazioni Unite, Ministro delle Finanze e poi degli Affari Esteri dell’era post Mubarak. È il ritratto del neo premier egiziano, che – fresco di nomina – si dichiara pronto a vagliare tutte le ipotesi di formazione della prossima compagine governativa che sostituirà l’esecutivo Morsi, destituito dopo appena un anno dal conferimento del mandato.

Intorpidite e oramai obsolete, efficienza e credibilità sono le parole che vorrebbero guidare la Repubblica Araba d’Egitto sui binari della  transizione democratica. L’ambizioso disegno di Beblawi  è il guanto di sfida che il Premier lancia al proprio Paese in un momento in cui le fonti di sicurezza riferiscono degli arresti in corso contro specifici gruppi dell’opposizione, ufficialmente “non allineati” al programma di riconciliazione nazionale che il governo e i militari hanno dichiarato di voler perseguire. A ciò si aggiungano le violenze mai interrotte degli estremisti islamici, che non risparmiano affatto la minoranza copta – specie nel Nord del Sinai – idealmente colpevole di avere istigato alla deposizione di Morsi.

L’asprezza dell’ardore frammisto alla paura accompagna l’inizio del mese sacro dell’Islam,  quasi a prendersi gioco del sottile arpeggiare del Ramadan sulle corde della moderazione e della filantropia. Ma è semplicemente la realtà. La temperanza dista ancora anni luce da Piazza Tahrir.

È accaduto il 3 Luglio scorso: scadeva l’ultimatum concesso dalla giunta militare, il Presidente Mohamed Morsi – paradossalmente, il primo eletto democraticamente – in un attimo non era più Presidente e il generale al-Sisi annunciava la sospensione della Carta costituzionale, la medesima che la Fratellanza aveva precipitosamente redatto e che poi era stata approvata da un referendum.

Sono stati dodici mesi turbolenti quelli che hanno visto sorgere e soccombere la Presidenza Morsi: un lasso temporale in cui le proteste, contenute quando non duramente represse, hanno spezzato una già stemperata maschera di democrazia.

Gli anelli deboli della catena

Le prime elezioni politiche della storia egiziana non sono state sufficienti a far sbocciare la primavera attesa a seguito delle proteste antigovernative. La Rivoluzione del 2011 sradicava la solidità faraonica del vecchio Presidente, traghettava il Paese verso elezioni democratiche (all’epoca forse premature), mentre oggi l’ultima parola l’hanno avuta i generali. Ma può veramente parlarsi di riconciliazione se a fronte del disorientamento collettivo solo l’esercito azzarda una risposta?

Spiega il politologo Andrew Arato come la delicata transizione che segue la rivoluzione contro un potere autoritario debba necessariamente vestirsi di un vero e proprio potere costituente democratico: la democrazia vive degli energici impulsi che nascono nella società civile, non solo nell’élite. Nella primavera egiziana questa forma di potere costituente democratico non è mai stata tangibile.

Ecco allora che quando la democrazia è ridotta all’ombra di se stessa, sorge spontaneo riflettere a posteriori sui palpiti di una rinascita forzata, in un momento probabilmente ancora inadeguato ad ospitare una seria transizione.

Il primo errore seguito alla Rivoluzione del 25 Gennaio è stato quello di abbandonare Piazza Tahrir senza elaborare effettivamente una roadmap finalizzata a ricostruire le principali istituzioni dello Stato, anche mediante  la predisposizione di un fronte rivoluzionario credibile e compatto, capace di avviare un dialogo tra tensioni eterogenee. Gli eventi del 3 Luglio mostrano invece come i dissidenti – imparando la lezione passata – abbiano fin dall’inizio sentito l’esigenza di delineare il percorso democratico da intraprendere. Al fianco dei ragazzi che hanno animato Piazza Tahrir negli ultimi due anni, ci sono adesso vecchi e nuovi leaders dell’opposizione, che intendono contribuire con una matura esperienza politica ad uno scenario istituzionale ancora in fieri.

Il secondo fallo macroscopico in cui incorrevano le mobilitazioni nel 2011 è sorto dall’incomprensione dei disagi comuni che la maggior parte del popolo egiziano è chiamato tuttora ad affrontare. Una più ponderata accortezza verso le richieste del tessuto sociale, sarebbe valsa all’opposizione un risultato nettamente differente alle elezioni. È evidente, tuttavia, come stavolta la principale coalizione liberale del Fronte di Salvezza Nazionale stia lavorando per permettere al Paese di  riscattarsi dalla crisi che investe la società civile, senza cedere oltremisura  alla pressioni di matrice salafita.

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Un colpo di Stato sui generis

Le ostilità e il sostegno al regime destituito danno corpo ai flussi umani che serpeggiano tra i viali del Cairo e il lungomare di Alessandria: con il medesimo coinvolgimento insistono per la fine di una quasi-teocrazia o, al contrario, per il mantenimento di un presunto stato civile fondato sul diritto (sebbene islamico).

L’analista Amr Al-Shobaki concorda sul fatto che l’ultima Costituzione non possa tollerare nel lungo termine le anomalie che presenta, specialmente sotto il versante delle inammissibili concessioni a favore del partito islamico al-Nour, che pure ha sostenuto la deposizione del Presidente Morsi.

È chiaro che tutte le vittime degli scontri che si sono susseguiti a partire dalla rivoluzione di Gennaio, come anche nel corso della transizione guidata dal Supremo Consiglio delle Forze Armate e più recentemente sotto la Presidenza Morsi, non possono essere dimenticate, ma se la vendetta continuasse a creare ulteriori martiri senza nome diverrebbe impossibile ricostruire il tessuto del Paese. È l’eco di un sogno già avvertito, che riporta l’attenzione agli anni Cinquanta di Nasser, quando l’Egitto era diventato il capofila del mondo arabo.

Ebbene, la costruzione di uno Stato moderno, laico e democratico non sarà tale fino a che esso non sarà capace di ascoltare quell’umanità senza voce, che chiede laicismo, giustizia sociale e diritti civili.

Ma il vecchio continente insegna per primo come la modernità  e la secolarizzazione sono baluardi di civiltà che hanno segnato un passaggio non certo indolore alla democrazia lungamente agognata.  Il discorso è il medesimo – solo amplificato da toni più decisi – che potrebbe oggi applicarsi ad un Egitto che sembra scivolare sul piano inclinato dell’ incertezza.

Nelle ultime settimane le maggiori forze geopolitiche globali hanno provato a denominare la deposizione del Presidente Morsi. I palleggi infiniti tra le alternative ammissibili – che si tratti di golpe, rivoluzione  o persino di impeachment popolare –  prolungano una partita che non sarà affatto risolutiva.

Nel variegato miscuglio di sfaccettature interpretative,  potrebbe calarsi il sipario sulla legittimità dell’intervento militare. Una disquisizione destinata a restare incompresa ed insoluta, a meno che non si rifletta su coloro che occupano il proscenio.

Da un lato il Consiglio Supremo delle Forze Armate, che ha fatto irruzione nel Palazzo Presidenziale di Heliopolis e ha arrestato il Presidente in carica; dall’altro la Magistratura, ossia la Suprema Corte Costituzionale, che riveste la Presidenza ad interim.

Ebbene, proprio le fondamenta istituzionali edificate nei trent’anni dell’era Mubarak – e che Morsi aspirava ad esautorare – incarnano adesso l’esigenza esasperata di ridefinire profondamente lo status quo.

Luttine Ilenia Buioni

 

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