E-learning e università telematiche

Da quando, lo scorso anno, l’Agenzia di valutazione del Ministero per l’Istruzione e l’Università ha espresso in via ufficiale pesanti riserve sulla qualità d’insegnamento delle università telematiche attive in Italia, e ne ha contestato la completa equiparazione agli atenei “tradizionali”, si è riacceso il dibattito sulla forma di insegnamento che le contraddistingue. Esse sono state presentate come ambienti di lavoro e di studio in cui il ruolo di docenti, studenti e ricercatori viene profondamente distorto, con un sostanziale abbandono delle attività di ricerca e di aggiornamento e una concentrazione pressoché assoluta sulla preparazione del “carico” di sessioni didattiche e sul sostegno agli studenti per il superamento più rapido e indolore possibile delle prove d’esame. D’altro canto sempre più spesso (si veda ad esempio il recente articolo de Linkiesta) si sente ribattere a queste comuni accuse mettendo in evidenza come metodi e procedure didattiche dell’e-learning stanno ormai diventando un linguaggio comune dei maggiori atenei del mondo, sempre più attrezzati per offrire MOOCs (massive open online courses) resi sempre più facilmente interattivi dalle possibilità di coinvolgimento e di interazione modellate sui social network. Se adeguatamente rifiniti e valorizzati, insomma, i contributi della formazione a distanza di ultima generazione dimostrano un’efficacia ormai internazionalmente riconosciuta, e gli istituti in grado di offrirli con continuità e attraverso un’esperienza consolidata possono diventare (dice addirittura, piuttosto incredibilmente in un contesto di moltiplicazione delle sedi universitarie vere e proprie e in un mondo in cui le distanze tra città di provincia e capoluogo di regione finiscono per sembrare oggettivamente ridicole, una figura di riconosciuta competenza come il funzionario dell’ISTAT a lungo impegnato nella valutazione universiaria Luigi Biggeri) strumenti efficaci per formare laureati competenti nei centri di provincia scongiurando il pericolo di brain drain a favore delle città universitarie maggiori.

Per affrontare questo discorso, però, occorre distinguere molto bene due piani che gli interventi giornalistici sul tema tendono a confondere. Per dirla brevemente, l’e-learning e le università telematiche sono due concetti distinti. Il primo è un metodo di disseminazione didattica che sfrutta le nuove tecnologie per coinvolgere un numero sempre più massiccio di discenti, e che negli ultimi anni sta trovando posto stabilmente a fianco di sistemi più classici e convenzionali di didattica. Si sono mossi su questi binari i più importanti progetti transnazionali di valorizzazione della didattica online, da Coursera, che ha visto la luce in America ma ha rapidamente coinvolto partner istituzionali europei, al tedesco Iversity, entrambi orientati al coinvolgimento del personale e delle strutture di atenei affermati, dotati di un importante e fondato capitale di reputazione, per l’offerta di contributi dall’utilizzo proficuo dei quali è prevista l’acquisizione di un attestato, e che in prospettiva potranno diventare utile materiale di discussione per sedute seminariali guidate da docenti in carne e ossa e dal rapporto interpersonale tra i partecipanti, senza sostituirsi del tutto al passaggio “artigianale” della conoscenza immutato nei suoi caratteri tradizionali in oltre due millenni di progresso tecnologico.

Per università telematiche si intendono invece istituti che fanno della produzione e dell’utilizzo dell’e-learning lo strumento didattico prevalente (anche se quasi mai esclusivo), e che gestiscono in proprio l’attribuzione di titoli di studio che riconoscono il pieno conseguimento di adeguati livelli di preparazione culturale e professionale.

 

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Questi providers di formazione post-secondaria sono la forma più avanzata di gestori di forme alternative alla didattica accademica ben più antichi, come le scuole universitarie per corrispondenza, o per la formazione di studenti adulti e lavoratori con corsi part time e serali, che nel mondo anglosassone hanno visto la luce già nel primo dopoguerra, e che più o meno ancora seguono il modello di business impiantato nel 1969 in Gran Bretagna dalla Open University, tuttora il maggiore istituto di formazione a distanza nel mondo. Nate in un contesto caratterizzato dal moderato o scarso (per quanto non nullo) accreditamento formale dei titoli accademici, e quindi da un mercato universitario volto soprattutto alla compravendita di competenze, questo genere di università si sono trovate a occupare generalmente una fascia di utenza lasciata relativamente libera dalle sedi tradizionali, ovvero quella che aveva a disposizione scarsi mezzi per il proprio investimento in conoscenza, e che intendeva acquisire preparazione e reputazione adeguata a tale costo contenuto, per avere una promozione o per emergere dalla working class senza puntare alle professioni intellettuali più “alte”. Non a caso il grande successo della distance  education con un momento in cui lo sviluppo economico ha iniziato a reggersi in forma massiccia sull’aumento della richiesta di personale culturalmente e tecnicamente qualificato con formazione post-secondaria, non necessariamente approfondita e solida come quella garantita dagli atenei “classici”.

Per strade diverse una distinzione delle funzioni di questo tipo ha finito per verificarsi anche nell’Europa occidentale accademicamente più avanzata, specialmente in Francia e in Germania, paesi tradizionalmente caratterizzati da sistemi di alta formazione pubblici ampi e capillari, e da varie forme di riconoscimento statale dei titoli di studio. Questo dispositivo, in particolare, consente al potere pubblico di richiedere una soglia minima di qualità nei corsi e nella preparazione dei docenti. La gran parte degli istituti specializzati nei percorsi di formazione alternativi si sono così confinati in settori di studio a specifica vocazione tecnologica, e nei corsi di specializzazione post-diploma non universitari o di formazione professionale interna alle aziende.

Nell’ambito dell’ondata di ripensamenti e di stagioni di riforma che nell’ultimo ventennio hanno frantumato il modello universitario europeo-continentale in sistemi ormai tra loro piuttosto diversi e per alcuni aspetti ancora aperti alla sperimentazione, l’Italia si è allontanata dalle pratiche dei paesi più efficienti anche per il ruolo degli istituti di formazione a distanza. Da quando, nel 2003, si è proceduto a livello ministeriale a regolare il riconoscimento degli atenei telematici, hanno ottenuto la possibilità di rilasciare titoli riconosciuti ben undici istituti, con circa trentamila iscritti (circa l’1,5% degli studenti universitari italiani) secondo le rilevazioni più recenti, che offrono corsi dedicati a tutti gli ambiti di studio ad eccezione di quelli medici e delle scienze matematiche, fisiche e naturali “pure”, rilasciando praticamente tutte le tipologie di titoli accademici, compreso il dottorato di ricerca. Siamo insomma di fronte ad istituti che non solo sono particolarmente numerosi e popolari, ma che, a differenza di quelli simili in giro per il mondo, cercano di limare fino a far scomparire ogni differenziazione della loro offerta da quella dei circuiti classici. A ciò si aggiunge l’altra particolarità di un costo delle rette generalmente più alto non solo della normale tassazione universitaria, ma anche delle spese generali mediamente effettuate dagli studenti per stabilirsi in una città universitaria per intraprendere gli studi. Rispetto ai maggiori casi esteri muta, quindi, il ruolo funzionale delle università telematiche, ma non mutano i metodi d’insegnamento, che anche nelle loro forme più efficaci non si sono mai mostrati capaci di raggiungere i risultati delle forme didattiche più tradizionali e affermate.

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Il quadro che emerge è insomma quello di un modello istituzionale ed economico distante da quelli che abbiamo considerato finora, ma simile, piuttosto, a quello che hanno messo in piedi gran parte degli istituti privatistici nella scuola secondaria. Tale modello si gioca tutto sul passaggio delle università a distanza da enti che offrono al mercato competenze a enti che offrono al mercato titoli, sfruttando la particolare declinazione italiana dell’accreditamento pubblico del titolo di studio. Come giustamente ricordano gli specchietti informativi più completi sulla complessa questione che periodicamente emerge nel dibattito (qui se ne trova uno particolarmente completo), accreditare pubblicamente la qualità minima richiesta dei corsi di studio è un compito necessario delle istituzioni pubbliche. Ormai da anni, però, nel nostro paese la situazione legislativa legata a queste pratiche è sfuggita di mano e non ha nulla a che vedere con le esigenze originarie.

In primo luogo, il sistema di accreditamento dei corsi di studio è limitato a una pura e semplice autorizzazione preventiva che comprova il rispetto di alcuni requisiti organizzativi considerati essenziali per la buona riuscita del progetto, quali l’offerta di alcuni esami fondamentali e, per le università non statali, all’assunzione di un’ampia quota di docenti attraverso le procedure di selezione fissate per gli atenei pubblici (storicamente così opache e aperte a distorsioni create da pressioni esterne da essere spesso considerate un ostacolo all’assunzione di personale davvero qualificato).

Inoltre, in diverse selezioni le richieste di specifici titoli di laurea sono regolate da una selva di norme e di rimandi, spesso sviluppata in maniera incrementale per stratificazione, che genera non uguaglianza di accesso ai ruoli d’impiego ma piuttosto esclusione dalla stessa possibilità di provare ad essere assunti.

Per le assunzioni nel settore privato, infine, il “pezzo di carta” non  ha un valore diretto. Tuttavia, nell’immaginario collettivo, esso conserva un importante valore d’immagine per il conseguimento di posizioni di una certa responsabilità. Nel contempo, in un mercato asfittico e vischioso come quello italiano al valore di facciata del traguardo accademico non devono necessariamente corrispondere capacità professionali corrispondenti: negli ultimi decenni, una parte significativa delle aziende italiane è vissuta soprattutto di committenza statale, e ha ritenuto opportuno assumere in interi settori personale che garantisse buone relazioni con chi avrebbe dovuto decidere dell’assegnazione degli appalti e dell’ammontare dei pagamenti, indipendentemente dalle doti professionali; in caso di difficoltà, poi, la minaccia dei licenziamenti e della delocalizzazione ha molto spesso dato accesso a sussidi pubblici che hanno mantenuto in piedi le imprese comunque, ancora una volta in modo indipendente dalla qualità del lavoro.

In questo contesto, gli atenei telematici hanno sia la possibilità di mettere sul mercato titoli senza sforzi eccessivi sul controllo della qualità dei percorsi di conseguimento, sia una significativa domanda del prodotto nella società, visto che il “pezzo di carta” giusto può essere un elemento di carriera importante anche se non accompagnato in modo compiuto dalla qualità del profilo culturale a cui esso dovrebbe essere legato. Si tratta, come è abbastanza evidente da questa ricostruzione, di un grande affare che nasce dal persistere di una serie di inefficienze del sistema normativo italiano sulla certificazione della qualità degli studi universitari.

Certamente non è necessario cedere a interpretazioni complottiste eccessivamente elaborate, in base alle quali lo stress a cui viene sottoposto il sistema accademico pubblico con le continue restrizioni di bilancio sarebbe finalizzato ad incrementare gli spazi di profitto per forme di istruzione universitaria alternative. Occorre però rilevare quanto sia effettivamente grave che gli istituti beneficiari di questa difficoltà funzionale si siano impegnati negli anni a costruirsi solide aderenze ai vertici di quella classe politica che ha proprio il compito di rimediare a tali “buchi” di legislazione, aderenze cementate dalla partecipazione di numerosi esponenti politici di spicco all’insegnamento, e coronate nel 2010 dall’amichevole visita dell’allora Presidente del Consiglio Berlusconi alla sede dell’università eCampus di Novedrate, proprio mentre il bicentenario della fondazione della Scuola Normale di Pisa, una delle riconosciute punte di diamante dell’eccellenza scientifica nazionale, passava quasi inosservata tra i membri dell’Esecutivo.